Interview: His Clancyness

Dietro a His Clancyness si nasconde ovviamente Jonathan Clancy, già leader di Settlefish e A Classic Education. Negli ultimi anni il musicista canadese di stanza a Bologna ha registrato un paio di album, Vicious (2013) e il recentissimo Isolation Culture, pubblicato proprio il mese scorso, insieme a una band, allargando quindi questo suo progetto. Noi di Indie-Roccia.it abbiamo approfittato di questa nuova uscita per contattare il gentilissimo Jonathan via e-mail e farci raccontare dell’ultimo LP, ma anche della evoluzione di His Clancyness, dei progetti futuri, delle influenze, della sua casa discografica, la Maple Death Records, e dell’Handmade Festival di Guastalla. Ecco cosa ci ha detto:

Mi pare che il progetto His Clancyness sia nato già un po’ di tempo fa: ci puoi spiegare quando e come è partito? Come mai hai deciso di aprire questo tuo side-project? Era forse per avere la libertà di fare qualcosa di diverso rispetto a quello che stavi facendo con gli A Classic Education?

No, non è partito in contrasto ad A Classic Education, soltanto che in casa costantemente registravo altre cose che non facevo in tempo a portare alla band; in quel periodo due amici Tommaso e Jukka di Secret Furry Hole, mi chiesero se mi andava di pubblicare qualcosa per loro e così, senza pensarci troppo, ho messo un primo punto sul percorso di His Clancyness.

Nel corso degli anni la formazione di His Clancyness si è allargata: si tratta ancora del tuo progetto solista oppure si puo’ ormai definire una band vera e propria?

E’ assolutamente una band, composta da 4 persone, Jacopo Borazzo, Giulia Mazza, Nico Pasquini ed il sottoscritto. Ormai suoniamo assieme da oltre 2-3 anni e facciamo tutto insieme. Purtroppo il nome è rimasto quello degli esordi e riflette maggiormente su di me, è una cosa che non posso cambiare, ci abbiamo anche pensato per un attimo, ma non volevamo buttare al vento tutti gli sforzi fatti negli ultimi anni.

Negli ultimi anni sei stato in tour in giro per il mondo e sei uno dei pochi artisti italiani che puo’ vantare di una buona credibilità e di un buon supporto anche fuori dai confini del nostro paese: il tuo songwriting quanto è stato influenzato dal viaggiare, vedere nuovi posti, andare in tour e incontrare nuove persone ogni sera?

Penso sia il 70% della nostra ispirazione, noi suoniamo perché è qualcosa che sentiamo di dover fare, ci fa stare bene e in secondo luogo perché negli anni ci ha permesso di viaggiare il mondo, vedere centinaia di città e realtà diverse che senza la musica non avremmo mai visto. Siamo drogati di questo meccanismo ed è difficile venirne fuori.

Vicious è stato pubblicato dalla Fat Cat Records, una delle indie-label inglesi più prestigiose e con un roster di tutto rispetto (We Were Promised Jetpacks, Twilight Sad, Traams, Paws, Honeyblood, solo per citarne alcune): come sei entrato in contatto con loro? Come ti sei trovato a lavorare con loro?

Dei nostri amici, i Lotus Plaza, ci avevano chiamato ad aprire una loro data a Londra; lì suonavano anche i Fear Of Men e nella loro band c’era uno stagista di Fat Cat che si è preso bene e ci ha segnalato alla label. In quel momento avevamo appena finito di registrare Vicious, per cui avevamo tutto pronto. Ci siamo trovati abbastanza bene, anche se personalmente preferisco come gusti la Fat Cat di qualche anno prima quando faceva uscire band come No Age, Black Dice, Animal Collective, i Welcome, Fennesz… insomma meno legata alla forma canzone. Però siamo molto contenti del periodo con loro, sicuramente soprattutto in UK ci ha aiutato.

Parlando del recente tour europeo che hai fatto appena prima dell’uscita di “Isolation Culture”: quali reazioni hai ottenuto dai tuoi fan verso le nuove canzoni?

Difficile capire, abbiamo quasi esclusivamente suonato canzoni nuove nel set, direi all’80%, ed il pubblico sembrava molto carico, probabilmente il fatto di aver suonato così tante date prima di registrare il disco ha fatto sì che le canzoni nuove funzionino ancora meglio dal vivo, ci sono più parti aperte, forse anche maggiore dinamica.

Parlando, invece, del nuovo lavoro, Isolation Culture, ci puoi spiegare da dove proviene il titolo? Che cosa significa per te la cultura dell’isolamento?

La scelta del titolo è arrivata molto presto durante il processo di scrittura, poteva essere anche “Culture Isolation”, “Isolamento Culturale” ma anche “Cultura Isolata”. Il titolo per noi riflette molte cose, anche abbastanza distanti, ma con una radice in comune, una sorta di alienazione dell’individuo. Volevamo cercare di esplorare come viene condivisa la cultura in questo momento, come spesso tanto sapere rimane semplicemente allo stato di nozioni in testa, non c’è un vero e proprio scambio, che tramite il confronto permette all’individuo di perfezionare la propria opinione, le proprie idee, magari averne di nuove migliori.

Quali sono stati i principali cambiamenti rispetto al disco precedente? Ho letto che qui anche gli altri componenti hanno collaborato alla scrittura: quali nuovi elementi hanno portato nella tua musica i tuoi colleghi?

Il cambiamento principale è che il disco è stato scritto assieme, in quattro, quindi ogni canzone riflette un po’ le influenze di tutti e soprattutto avere degli altri accanto che partecipano al processo ti permette di sentirti più sicuro e quindi di poter prendere dei rischi maggiori… come ad esempio tenere molte cose dei demo che secondo noi funzionavano. Tipo il beat di “Pale Fear” è un loop di batteria suonato e poi registrato sul nostro Tascam 4 piste a cassetta e poi splittato e passato in parte dentro ad un pedale di pitch… diventando parte fondamentale della canzone. Piccoli dettagli così, idee che in 4 diventano più facili da portare avanti. Giulia ha suonato tutti i synth e portato le sue parti, quindi anche per me diventa più facile concentrarmi solo sulle mie e viceversa.

Quali, invece, sono le influenze, musicali e non musicali, più importanti in Isolation Culture?

Musicali è veramente difficile da dire, perché ne abbiamo tante, ma questa è la prima volta che in studio non abbiamo parlato molto di riferimenti contemporanei o passati. Sicuramente nei nostri pezzi si sente sempre questa voglia di mantenere un equilibrio tra canzone e “altro”, questa cosa ce la portiamo dietro sin dagli inizi. Ci piaceva cercare di avere dei testi più diretti, poi come altre band sicuramente abbiamo parlato di “Lodger” di Bowie ed il primo di Plastic Ono Band. Un altro riferimento rimangono gli Swell Maps, soprattutto per il fluire dei pezzi, i frammenti di suono tra una canzone e l’altra.

Per il nuovo album avete collaborato con MJ degli Hookworms nel suo Suburban Home Studio a Leeds. Negli ultimi due / tre anni i migliori dischi indie provenienti dal Regno Unito sono stati prodotti da lui, che si è dimostrato senza dubbio uno dei migliori produttori inglesi in questo momento. Come ti sei trovato a lavorare con lui?

MJ è incredibile, ci conosciamo da anni, ci aveva scritto un messaggio molto carino ai tempi di Vicious e ci aveva ospitato a Leeds, per cui era rimasta nell’aria la voglia di lavorare assieme. Ha questo piccolo studio che sfrutta al massimo, un vero nerd e per noi è stato importante soprattutto perché da lui abbiamo registrato le “canzoni” del disco ed è un engineer molto scrupoloso e attento ai dettagli.

Un’altra importante collaborazione è stata quella con Stu Matthews dei Beak. Che cosa hai provato, mentre lavoravi in uno studio così importante come l’Invada di Bristol, casa di un gruppo influente come i Portishead?

Sicuramente quanto vedi la lavagnetta ancora appesa dentro allo studio con i pezzi di “Third” dei Portishead e con le note della registrazione non puoi rimanere indifferente… detto ciò registrare lì è stato super semplice, abbiamo montato tutto nella stessa stanza e semplicemente suonato… Stu è un tranquillone, fondamentalmente ci faceva usare lo studio come se fosse il nostro.

Quali sono i programmi per il prossimo anno per His Clancyness? Ho visto che a dicembre farete ancora alcune date in Italia, ma nel 2017 vi state organizzando per ritornare a suonare all’estero?

Diciamo che abbiamo appena iniziato, ci piace suonare tanto dal vivo, è la cosa che ci soddisfa di più, quindi nel 2017 continueremo, ci sono tantissime date in Italia, un tour in Est Europa a Febbraio, Stati Uniti ed il SXSW a Marzo e forse un altro tour Europeo e poi un po’ di festival. Insomma non staremo fermi per un bel po’.

Parlando della tua Maple Death Records, è difficile gestire un’etichetta? Con quale criteri scegli gli artisti da mettere sotto contratto? Hai quache gruppo o band del tuo roster che vorresti suggerire ai nostri lettori?

Più che difficile è impegnativo, è una cosa che volevo fare da tantissimo tempo, ci lavoro 3/4 ore tutti i giorni. L’unico criterio è che mi deve colpire particolarmente e che mi deve piacere al 110%, non basta il 100%. Deve avere una personalità unica.
Consiglio il disco di Whitney K, outsider di Vancouver incredibile (https://mapledeathrecords.bandcamp.com/album/goodnight) e l’ultima uscita di J.H. Guraj, chitarrista di Bologna che mi ha fulminato! (https://mapledeathrecords.bandcamp.com/album/underrated-glances-at-the-edge-of-town)

Posso chiederti dell’Handmade Festival di Guastalla? Com’è nato questo progetto, che ogni anno vi dà notevoli soddisfazioni e anche ottimi riscontri di pubblico? Da un piccolo festival all’interno di un granaio, quando era iniziato, ora è diventata una manifestazione molto apprezzata a livello nazionale e non solo e porta artisti da tutto il mondo: quanti sforzi porta organizzare una rassegna come questa?

Molto semplice, avevo questa idea di festival ma a Bologna era troppo difficile organizzarla, Alessio e Danilo erano carichi, avevano questo fienile a Guastalla e da lì siamo partiti. Da una prima edizione di 300 persone siamo arrivati a quelle attuali di 4000-5000 persone, è pazzesco. Ci lavoriamo ormai direi tutto l’anno, principalmente noi 3, ma poi abbiamo un sacco di volontari incredibili che ci danno una mano nelle settimane precedenti e soprattutto il giorno stesso. Quest’anno si terrà l’11 Giugno.

Un’ultima domanda: potresti scegliere una tua canzone, vecchia o nuova, da usare come soundtrack di questa intervista?

Al momento ti direi Dreams Building Dreams dal disco nuovo.

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