Interview: Daniele Silvestri

Abbiamo avuto l’onore di essere invitati alla confernza di presentazione dedicata alla stampa web del nuovo disco di Daniele Silvestri, dal titolo Acrobati. Dopo aver ascoltato in anteprima una buona parte del disco, abbiamo potuto ttuti insieme rivolgere domande all’artista romano. Questa è la trascrizione delle sue risposte divise per argomenti.

L’approccio iniziale e le idee che hanno condotto la realizzazione del disco
Ho cercato di creare le condizioni per cui questo lavoro sorprendesse per primo me. Volevo suscitare in me emozioni, desideri, curiosità che mi portassero a essere il più libero possibile. Non che di libertà non ne abbia sempre goduto, chi fa il nostro mestiere è sufficientemente libero, se non ne godiamo è solo per colpa di noi stessi che non diamo onore a quella libertà. Da una parte ho deciso, un po’ per caso all’inizio ma poi in maniera programmatica, di entrare in uno studio di registrazione solo con appunti, spunti, embrioni, semi, anche perché l’intenzione era intanto quella di esercitare la libertà insieme a altre persone, che non sono marginali ma sono stati una parte fondamentale delle scelte che stanno alla base di questo disco, i musicisti che sono in questo disco ne sono tutti genitori insieme a me, hanno preso questi semi, li hanno piantati e li hanno fatti crescere. Poi, soprattutto, volevo fermare su nastro quel momento magico che è appunto la creazione, quando dal nulla vedi nascere qualcosa, condividendolo con altre persone. Questo è stato alla fonte di un entusiasmo che secondo me un po’ si sente. Questo cammino è iniziato in maniera molto spensierata, perché per una volta ho anticipato i tempi e non ho aspettato di essere nella fase in cui dovevo rispettare delle scadenze, che peraltro non è mai stato il mio forte, ma mi sono potuto permettere il lusso di andare in quei primi tre giorni nello studio di Roy Paci a Lecce senza un obiettivo preciso, portandomi dietro delle persone che mi sembravano quelle giuste, quasi tutte persone nuove rispetto al mio percorso precedente, con cui divertirci per tre giorni, per fare quell’azione lì, quel seminare di cui raccontavo, senza sapere a che scopo. Ho fatto cose con una libertà che mai avevo avuto, se non forse all’inizio, quando scrivevo canzoni solo per me, senza sapere che qualcun altro le avrebbe sentite. Quando siamo andati via dopo quei tre giorni, mi sono trovato con 21 tracce registrate e la sensazione molto netta che lì dentro ci fosse già il cuore del disco, e così è stato. Poi questa modalità l’ho riproposta anche più avanti, quando le cose si facevano più ufficiali e i tempi più canonico, ho cercato di continuare in quel modo e tecnicamente mi sono anche messo nelle condizioni di lavorare ai testi e concludere la canzone, farla diventare canzone, in una maniera mai fata prima, semplicemente perché ho deciso di rispettare quel momento iniziale e non piegarlo alle necessità canoniche. Questi sono speso flussi magmatici senza una struttura vera e propria e ho voluto scrivere i testi senza modificare quello. Non avevo mai scritto in questo modo. Poi magari sono solo discorsi mentali che mi faccio io e in realtà arriva la solita cosa, spero di no, se non arriva la solita cosa il motivo è questo.

Il suono
L’autore non è quasi mai la persona più obiettiva per giudicare, ma in ogni caso parlerei di un’intensità molto forte nei suoni, che per quanto mi riguarda, coincidono con le persone che li stanno emettendo, con i musicisti che io, mai come in questo disco, vedo fisicamente mentre ascolto e spero sia così per tutti. La scelta di aver registrato tutto in presa diretta va proprio nella direzione di una maggior intensità, perché quando si registra in presa diretta succede questa cosa meravigliosa per cui gli spazi vengono occupati nella maniera giusta, naturale, invece quando fai le sovraincisioni, com’è più facile anche fare, serve molta più roba. Io in passato ho messo molti, molti più strumenti rispetto a questo disco, però non sembra, anzi, in un certo senso, più ne metti e meno occupi lo spazio, hai sempre la sensazione che manchi qualcosa. Quando invece si suona con le persone giuste in diretta, cioè insieme, lo spazio musicale è fatto anche di aria e gli strumenti si prendono una loro collocazione che riempie e disegna la scenografia intorno e la storia che stai raccontando in maniera molto più forte, pure se di suono ce n’è di meno, perché è molto più grande, più evidente e, soprattutto, più giusto.

Il titolo del disco e il concept alla base di esso
Il disco si chiama Acrobati non per caso. Credo che questo sia un tempo storico in cui siamo tuti un po’ funambolici nel cercare un equilibrio, che sia psicologico, sociale, morale, politico. L’equilibrio tra la preponderanza dell’oggi, del quotidiano nelle nostre vite, nei nostri tempi, nelle nostre frette, nella nostra confusione, con una scarsa capacità per tutti di progettare, di avere uno sguardo che riesca a proiettarsi in aventi, a avere una speranza di progetto, non dico la realizzabilità, ma almeno una direzione in cui muoversi. Il disco è pieno di questo sentimento, però è rivendicata la capacità mostruosa che abbiamo tutti di continuare comunque a camminare, malgrado si sia costantemente esposti ai venti e magari si stia camminando in mezzo alle nuvole, quindi non vedendo dove puoi arrivare e magari nemmeno da dove sei partito. Quella condizione lì è dinamica, non esiste un equilibrio su un filo, sì si può stare fermi ma è come la bicicletta, tendenzialmente devi essere in movimento, è un equilibrio che riconfermi ogni istante. Secondo me il disco fa questo, per contrasto ti porta in luoghi molto diversi ma nel disegnare un percorso narrativo, forse un equilibrio c’è, è dinamico e per questo credo che, anche se ormai è anacronistico fare ancora degli album e pensarli su un supporto (io ancora dico album e i miei figli pensano alle figurine, mica alla musica), visto che è così anacronistico, se proprio lo devo fare devo farlo esponenzialmente, devo rendere quell’insieme un insieme davvero unico che deve stare insieme. La successione dei brani nella scaletta non è un punto marginale in questo senso, diventa il tuo strumento per fare in modo che, visto che il disco ferma in qualche modo le canzoni (io vorrei tanto che le canzoni rimanessero sempre un cantiere aperto e la cosa che mi viene più difficile è dire basta, è così), questo vale ancora di più per il disco nel suo complesso e quindi se devo trovare un percorso, non devo sbagliarlo, perché poi rimarrà quello il modo in cui vorrei che le persone lo ascoltassero. Poi lo so che ci sono il digitale e lo streaming e ognuno può fare quello che vuole ed è bello anche così, quindi ogni canzone deve poter essere indipendente, però l’occasione che ti dà questa parola “album” è quella di disegnare una cosa che sia più complessa e ricca e che indichi un percorso. E se la sensazione, alla fine del percorso, è che l’equilibrio ci sia, nel sono felicissimo. Poi, siccome quello che mi appassiona di più siamo noi, cioè l’essere umano, continua a essere la fonte principale di curiosità e la cosa che mi più far incazzare di più o innamorare di più, allora un po’ ho bisogno di andare in alto per percepire la parte più bella delle nostre capacità, perché da lì sembra persino stato capace di dare un ordine, una struttura alla natura, viste dell’altro certe geometrie sembrano pure creazione, pura poesia, invece dal basso ne vedi molto più le nefandezze e la sporcizia, le brutture. Il bisogno di elevarsi sta anche in questo, nel bisogno che abbiamo di guardare le cose da più lontano, da dove anche le cose più dolorose fanno soffrire. Dall’alto riesci a vedere la memoria e progettare un futuro. L’uomo, inteso come collettività, ha bisogno di questo per essere tale. Perciò seno che quello dell’acrobata è il punto di vista giusto, non l’idea di volare, non voglio andare più su di così, voglio continuare a vederlo il mondo sotto.

Il contenuto dei testi
Ho cercato di evitare il più possibile l’attualità, con l’eccezione di Quali Alibi e del discorso sul cibo bio che però è molto leggero. Per il resto, ho un’età per cui mi sento un pochino meno predisposto e anche meno in diritto di raccontare il presente, penso che ci siano persone più titolate a farlo perché, per motivi anagrafici, lo vivono in forma più diretta e con quel misto di ingenuità e passione, spirito di battaglia che ho avuto anche io e che a 47 anni possono essere più forzati e meno giustificati. Quello che mi sembrava di poter fare alla mia età e dopo un bel po’ di anni in cui di cose ne ho dette, era cercare di allargare l’orizzonte, lo sguardo, cercare di raccontare storie, portare l’ascoltatore il più possibile altrove, metterlo in una condizione più fanciullesca d’ascolto, cosa che succede se vieni portato via dall’immanente, dall’immediato, anche dal dibattito politico, dalla polemichetta del giorno. Sono tutte cose con cui conviviamo e che magari ci mettono in una disposizione d’animo diversa, più critica, più distaccata o più coinvolta, invece qui mi piaceva essere più poetico che politico. Dopodiché anche il parlare di storie lontane o di emozioni è politica in qualche modo, ma in maniera meno esplicita e proprio per quello, potenzialmente più forte.

Le collaborazioni con Caparezza e Diodato
Era una vita che avevo voglia di fare qualcosa con Michele (Caparezza). Ho poi scoperto che era così anche per lui ma siccome siamo entrambi timidi e rispettosi sarebbero potuti passare altri vent’anni prima che uno dei due si decidesse a alzare il telefono. Io, sempre sull’onda di questo momento particolarmente libero e spensierato, quello iniziale, a un certo punto mi sembrava di avere per le mani un giro strumentale che era particolarmente adatto a stuzzicare la curiosità di Michele che chi lo conosce sa che ama un certo tipo di hard rock, le chitarre pesanti gli sono sempre piaciute. Allo stesso tempo, avevo quest’idea di usare la parola “sale” e di giocarci in tutti i modi possibili e se devo immaginare, nel panorama italiano, una penna in grado di giocare con una parola o con le parole, meglio di lui non mi viene in mente nessuno sinceramente. Ho fatto quindi quella famosa telefonata e gli ho detto “ti mando una schifezza e senti quello che vuoi farci, ma senza impegno, nessuno ce lo ordina e può rimanere una cosa che finisce qui”, invece la sua risposta è stata già con una prima idea di strofe e da lì è scattata una sorta di gara, di sfida, in cui ci mandavamo idee che in sostanza cercavano di far ridere l’altro, di sorprenderlo, di stuzzicarlo ulteriormente. Il risultato finale è un agglomerato che secondo me ha dei momenti particolarmente interessanti, anche degli argomenti non proprio così leggeri entrano, però in modo non programmatico e particolarmente libero. Sono molto contento di questa collaborazione perché è venuta fuori nella maniera più istintiva, giocosa e spensierata possibile.
Nel caso di Antonio (Diodato), la collaborazione nasce per una vicinanza nei fatti, con lui ci conosciamo da un po’ di anni ma in questo disco le scelte delle persone con cui lavorare gravitano tutte attorno a un piccolo mondo in cui lui c’entra parecchio, a cominciare da Daniele Tortora che è il fonico con cui ho fatto tutto il lavoro. Poi lui è pugliese, quindi quando eravamo lì ci è venuti a trovare, quindi era impossibile non fare qualcosa insieme, visto che secondo me lui è una di quelle persone che hanno un timbro vocale e una capacità espressiva particolari, belli e forti, se fosse nato Oltreoceano sarebbe già in cima a delle classifiche, sarebbe un crooner clamoroso, dalle nostre parti ci vorrà più tempo probabilmente. Comunque lui era una grandissima pedina da giocare, poi il suo intervento è molto delicato, è entrato in punta di piedi nelle due canzoni in cui c’è, il suo contributo è d’anima soprattutto, non è evidente come Caparezza, che entra e dice le sue cose a sui modo. Antonio entra più come uno strumento per certi versi, che poi è una delle sue grandi forze. Non mi vengono in mente molte altre persone che potessero interpretare melodicamente, come timbro, le atmosfere in cui lui è entrato così bene.

La copertina
L’unico vero acrobata che c’è sulla copertina del disco è Philippe Petit, che ha svolto diverse imprese, la più famosa delle quali è la camminata tra le due Torri a New York, quando c’erano. Più che le sue imprese, però, trovo affascinante il suo pensiero, perché è scomodo, lui è un personaggio particolare. Tra le tante cose forti che ha detto c’è il suo modo di raccontare la sua scelta, Lui parla di disobbedienza alla gravità come atto di ribellione creativa, come crimine artistico e mi piace questo atteggiamento e per certi versi lo condivido. Nella scelta di non avere protezione, che poi alcune volte non è una scelta ma è l’unico modo per procedere, c’è qualcosa che nobilita la nostra capacità di andare avanti, di riuscirci, di compiere un atto anche quando è fine a se stesso, perché nessuno ti ha ordinato di andare in quel modo da un grattacielo a un altro, però in quel gesto c’è qualcosa che ci tiene tutti con i piedi per aria e secondo me il mio mestiere pure deve un po’ fare questo, cercare di attrarre un’attenzione incantata, al di là del fine che si vuole raggiungere. L’immagine di copertina nasce per la capacità incredibile di una persona di interpretare il sentimento di un disco, Paolo Di Francesco è un vero artista con una sensibilità straordinaria.

Il tour
Questo è il mio primo tour teatrale. Mi riempie di orgoglio l’essere riusciti, faticosamente, a renderlo un tour che tocca tutte le regioni italiane, cosa non facilissima. È stato deciso molto tempo prima che il disco fosse chiuso che il tour sarebbe stato teatrale, prima di sapere che disco mi sarei trovato per le mani. Ora, a posteriori, posso dire che sia stata la scelta giusta, perché quello che vorrei fare in questi spettacoli è trasmettere e forse amplificare, vito che il teatro ha dei linguaggi in più che posso utilizzare, quel senso di magia e di funambolismo che il disco in vari modi cerca di far passare e il teatro, secondo me, è il luogo migliore per farlo. Contemporaneamente, in momenti diversi dello spettacolo, vorrei anche l’opposto, cioè continuando a usare l’immagine del mago, vorrei affascinare, coinvolgere, far diventare bambini gli uditori ma a un certo punto svelare il trucco, come fanno certi maghi, vorrei riuscire a far partecipare le persone al momento in cui la magia si è creata. Una delle ambizioni che ho per lo spettacolo è farlo succedere in diretta, che certe cose nascano lì e mi sto inventando delle maniere funamboliche per farlo, spero di riuscirci. È vero che certe canzoni saranno difficili da ascoltare seduti in poltrona trattenendo la voglia di alzarsi e ballare, però da parte mia c’è anche un qualcosa di bello nel vederla questa difficoltà a restare fermi, poi diciamo che mi prendo la responsabilità di cercare di disegnare lo spettacolo in modo che, a un certo punto, ci si alza.

Il prossimo futuro
Le canzoni cambieranno ancora, per forza, secondo me ogni canzone deve cambiare e crescere in vari sensi. Intanto perché ogni ascoltatore la cambia, perché ognuno dà alla canzone il proprio valore e la propria direzione, ne interpreta il significato testuale e musicale secondo la propria sensibilità. Poi banalmente c’è tutta un’altra vita in queste cose, che inizia quando si suona dal vivo, dove prenderanno altre strade, alcune in modo poco riconoscibile e altre in modo molto evidente, alcune di queste si prestano a essere un terreno ancora da esplorare. Poi, fra l’altro, a un certo punto ho messo un punto perché era quasi finito il tempo, ma in realtà stavo lavorando a molte più canzoni di queste, che già sono tante. È un periodo particolarmente fortunato, prolifico e ricco ed è come se questo disco non fosse neanche esaurito qui, c’è altro che è rimasto fuori e che è contemporaneo al disco, non c’è un prima o un dopo, solo che ancora non ha avuto la fortuna di nascere ufficialmente, ma succederà credo presto che altre cose raggiungano questi racconti.

Come deto, il disco esce venerdì 26 febbraio. Il prossimo 2 marzo, invece, andrà in onda su Sky Arte in prima serata uno speciale su Acrobati con immagini esclusive dallo studio di registrazione in cui è stato lavorato il disco
La foto è di Daniele Barraco

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