Sidèreo: quel gusto prog che quasi rimpiango

Eccoli i Sidèreo, formazione che in qualche misura mi richiama alla mente quel modo di pensare alla musica dalle forme prog, dove il pop diviene mistico, di liriche evocative, quasi fiabesche. Il mito torna e fa gli onori di casa dentro un disco come “I capricci di Mnemosine”: canzoni che si mettono alle spalle soluzioni non di facile digestione in primissima battuta, dove la “memoria” è allegoria di passato dentro cui scavare per ritornare alle proprie radici e ragioni. Andiamo nel passato anche per la scelta dei suoni: un lavoro che avrei visto bene tra le abitudini di quegli anni ’70…

Il suono riprende gli anni ’90 ma le immagini ci portano nel futuro delle intelligenze artificiali. Come vi rapportate a tutto questo? Sembra un controsenso… sembra…
Il nostro suono ha un’anima molto legata agli anni ’90: c’è una nostalgia che passa attraverso le chitarre, le dinamiche, certe scelte di produzione. Ma quando abbiamo pensato alle immagini per accompagnare il brano, volevamo qualcosa che non fosse semplicemente illustrativo, né nostalgico in senso didascalico.
Abbiamo scelto l’intelligenza artificiale come strumento visivo proprio per la sua capacità di generare un’atmosfera straniante, sospesa, onirica. Il video non vuole essere futuristico in senso classico, ma evocare un sogno, un ricordo distorto — proprio come fa la memoria. E l’AI ci ha permesso di restituire visivamente quella sensazione di qualcosa che riconosci, ma che allo stesso tempo ti sfugge.
Non crediamo sia un controsenso, anzi: è una forma di dialogo tra epoche, tra sensibilità analogiche e strumenti digitali. Non temiamo l’intelligenza artificiale in sé, quanto piuttosto l’uso che se ne fa. È un mezzo potente, e come ogni mezzo creativo va trattato con consapevolezza e misura.

Tante le radici, compresa quella dei Massimo Volume dentro un brano come “Formica”. La distonia dello shoegaze è un manifesto del tempo che stiamo vivendo? Da qui nasce il vostro suono?
Sicuramente nei Massimo Volume c’è una radice importante, non solo musicale ma anche nel modo di intendere il linguaggio e la narrazione. In “Formica” quel riferimento può affiorare, soprattutto nel legame tra parola e ritmo, ma non è mai stato un omaggio esplicito: piuttosto, è una risonanza naturale, che emerge quando si lavora con certi suoni e certe tensioni. Quanto allo shoegaze — sì, forse la sua distonia è davvero un manifesto del nostro tempo. Parla di sovraccarico, di bellezza confusa.
È una musica che non chiede di essere capita subito, ma di essere abitata. E in questo somiglia molto a come ci sentiamo spesso oggi: disorientati, stratificati, pieni di cose da dire, ma senza un canale preciso.
Il nostro suono nasce anche da questo bisogno di restituire un’esperienza emotiva complessa.

Che poi è tema di attualità: stiamo smettendo di lavorare sulla memoria e senza di essa non potremo avere futuro. Vinceranno le macchine secondo voi?
Stiamo vivendo un’epoca in cui la memoria — quella vera, profonda, emotiva — viene spesso compressa, ignorata, ridotta a cronologia o archivio digitale. C’è un rischio concreto: che si perda il valore del ricordo come strumento umano, identitario, trasformativo. Vinceranno le macchine? Non è questo il punto. Le macchine fanno quello che chiediamo loro di fare. Il problema è: cosa stiamo chiedendo davvero? Se deleghiamo tutto, anche la parte più fragile e poetica di noi, allora sì — le macchine vinceranno per abbandono, non per superiorità. Noi, nel nostro piccolo, cerchiamo di coltivare il ricordo come qualcosa di vivo, non come nostalgia sterile. È un atto quasi politico, oggi.

E nel vostro “Resoconto” finale? Si guarda sempre indietro? E nel continuo guardarsi indietro, ci ritroviamo ad un oggi in cui non abbiamo risolto niente?
Resoconto è il nostro epilogo, ma è tutt’altro che una chiusura netta. È più una resa — non nel senso di abbandono, ma di accettazione. Sì, si guarda ancora indietro, ma senza cercare soluzioni definitive. È uno specchio che non restituisce risposte, solo domande più chiare.
Nel continuo voltarsi, forse ci accorgiamo che certe ferite non si chiudono, certe verità non arrivano mai. Ma questo non vuol dire fallire. Vuol dire, semplicemente, che siamo umani. E in questo “non aver risolto niente”, c’è qualcosa di profondamente autentico.
Non volevamo dare una morale, né un finale consolatorio. Resoconto ci dice che va bene anche così: con tutti i dubbi, gli strappi, i tentativi. Perché è lì che si nasconde spesso il vero senso delle cose.

Il suono per voi che importanza ha? Nel senso che dentro c’è meno sperimentazione di quella che mi sarei atteso…
Il suono per noi è importante, è un linguaggio emotivo prima ancora che tecnico. Quello che ci interessava era arrivare a un suono che fosse coerente con ciò che volevamo dire, che accompagnasse i testi senza sovrastarli, ma nemmeno restando in secondo piano. Sperimentare, per noi, significa trovare il modo più autentico di far suonare una sensazione. A volte significa destrutturare, altre volte significa lasciare stare, non esagerare. Se da fuori può sembrare “meno sperimentale” di quanto ci si aspettasse, può darsi. Il nostro obiettivo non era sorprendere, ma toccare. E a volte, per toccare davvero, serve più misura che spinta. Speriamo, in questo, di aver fatto il possibile.

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