Roccia Ruvida: Bande Rumorose in A1

Scrivete: “La velocità e le informazioni vanno bene, non riuscire più a capire che i sentimenti vanno cercati nelle persone e non nei sondaggi, no”. E mi trovate molto d’accordo. Ma non pensiamo tutti che a forza di “usarlo” com’è questo sistema si fa il gioco che poi critichiamo? Siamo così privi di “umanità” e solo di estetica proprio perché continuiamo a mettere tutto gratis e a dar peso solo alla forma… insomma siamo artefici di quel che critichiamo o sbaglio? Detto questo, mi affascina e non poco la sintesi (per niente qui intesa come sinonimo di banale) di questo suono che arriva dal duo Bande Rumorose in A1. Moniker affascinante e denso di allegorie. E questo nuovo disco dal titolo “Gli inquilini del sottoscala” sembra essere uscito da un libro fumoso di qualche soffitta. Eppure ci siamo tutti dentro…

Diceva il saggio: sempre facile accostarsi alla voce degli ultimi.
Smuove il buonismo delle masse. Ci vuole gran competenza invece star tra
le fila dei primi… e siccome ci sono in pochi, meglio dire che quei
pochi rubano. Giusto? Come la storia della volpe e dell’uva…
Ineccepibile, ragionamento perfetto ma, permettimi, parziale. Non crediamo, o almeno non è il nostro caso, che la vicinanza ad un contesto (e alle persone che ne fanno parte) sia dettata semplicemente da empatia o, ancora peggio, da buonismo.
Non siamo buoni (io no di sicuro), non lo siamo mai stati, anzi ti dirò che, personalmente, sono piuttosto egoista. Scrivo e parlo di ciò che suscita la mia curiosità e il mio interesse. L’uva non è, per quanto mi riguarda, troppo acerba, è semplicemente “priva di fascino”. È vero che i “primi” hanno una gran competenza, è vero che per essere e restare “primi” ci vuole qualcosa che gran parte degli altri non ha. È anche vero, tuttavia, che i “primi” si sono scoperti, si sono lasciati conoscere, hanno parlato di sé o hanno “preteso” che qualcuno parlasse di loro. Ciò che voglio dire, che poi è quello che ci spinge a scrivere di alcune cose e non di altre, è che non ha senso farsi delle domande su qualcosa o qualcuno se quel “qualcuno” o “qualcosa” ti hanno già fornito una risposta. Questa, naturalmente, è una risposta da “volpe”.

Suono di sintesi che ripesca un po’ tutto nel passato… dunque per voi
 il futuro? Meglio scartarlo a prescindere?
Per sua natura il futuro non si fa scartare, non credo sia possibile. Credo inoltre che il “futuro” non sia lineare: futuro non è quello che non è mai stato fatto o detto, ma la sensazione (o la reazione) nuova di fronte a quello che si fa o si dice. Attingere, riprendere o ripescare dal passato non equivale a recuperare un oggetto dalla soffitta per rimetterlo in salotto, equivale a rileggere per la quinta volta una poesia e scoprire che ti regala un’immagine nuova.
Se pensiamo al passato e al futuro abbiamo di fronte due “oggetti” doversi, per forma e contenuto: il passato esiste, in termini di tempo e in termini di spazio (ossia di tempo riempito dalle nostre azioni. Il futuro non esiste ancora, esiste, forse, solo come tempo da “impiegare”. Da questo punto di vista noi non lo possiamo scartare, per la semplice ragione che non ci è “offerto” come “oggetto” pronto e finito, ma come “scatola piena di pezzi” (più pezzi che tempo per assemblarli, purtroppo).

Che poi voi due siete coinquilini nella vita? Nella musica? Non lo so…
sembra un titolo quasi autobiografico… forse non c’entra nulla…
Coinquilini in senso stretto no, ma, a seconda delle dimensioni della “casa” lo siamo tutti, gli uni degli altri. Il punto è il “peso” della tua presenza all’interno della casa, il tempo passato nella stessa casa e le relazioni che hai con gli altri inquilini. Questo titolo (Gli inquilini del sottoscala) nasconde domande che noi ci facciamo di continuo: chi sono gli inquilini da tenere nel sottoscala, per non parlarci, per non dover convivere con gli aspetti che di loro non ci piacciono. Non solo, ci chiediamo anche se non sia più facile, anziché scegliere chi escludere, rimanere noi stessi nel sottoscala: vedere e non essere visti, peggio: non essere visti per poter vedere. D’altra parte, nella stessa casa, per quanto nascosti e, se vuoi, ignorati, gli inquilini condividono gli stessi spazi e le stesse “economie” quotidiane: essere coinquilini è un modo per non poter evitare il confronto.

E di questo nome che vi portate dietro? Quanto di meno comodo
 giornalisticamente parlando… scomodissimo anche da ricordare… perché?
Come nella migliore delle tradizioni: la ringrazio per la domanda. Il nome (Bande Rumorose In A1) è importantissimo perché è il simbolo della nostra affinità, vorrei dire “spirituale” ma è più corretto “patologica”. Stavamo andando a suonare a Modena e imbocchiamo l’autostrada, leggiamo il cartello “bande rumorose” (le famose zigrinature che ti impediscono di addormentarti e schiantarti) e, prima Valeria, poi io, iniziamo a ridere come due deficienti. Nessuno aveva il coraggio di dire che nelle nostre testa, praticamente nello stesso istante, si era formata l’immagine degli ottoni, del timpano, degli archi, insomma di una banda in mezzo alla carreggiata, una banda con in compito di tenere sveglie le persone.
Lo so: la cosa ha fatto ridere e farà ridere solo noi due ma ti assicuro che quello che abbiamo pensato è “abbiamo la stessa mente bacata”. Il nome del gruppo è nato in quel momento.

E di Spotify che ci dite? Dato che tanto criticate il sistema
quotidiano, poi al sistema aderite dando in regalo il vostro lavoro.
Cosa ci rispondete? Questa è lamia domanda topic…
Lo ammetto, questa è tosta. Non ci trovi totalmente d’accordo sul presupposto: criticare il sistema. Il “sistema” è dove viviamo e ci muoviamo, il sistema è anche dove facciamo musica o ci innamoriamo o stiamo con i nostri amici e i nostri gatti. Il sistema sono anche gli strumenti con cui possiamo ascoltare e far ascoltare quello che facciamo. La critica non è “al sistema” ma al modo con cui, a volte, lo si vive, al modo con cui se ne sfruttano le “armi” per uccidere le emozioni, al modo con cui ci si sottomette ad esso ignorando il fatto che la sottomissione non è uno scambio, è una rinuncia: del tempo, della fantasia.
Il male, e di questo parla il nostro disco, non è l’esistenza di piattaforme o strumenti più o meno discutibili, ma il “compromesso” con cui, per farne parte è necessario concedere il nostro tempo, i nostri pensieri, i dolori degli altri. La velocità e le informazioni vanno bene, non riuscire più a capire che i sentimenti vanno cercati nelle persone e non nei sondaggi, no.

Come sempre chiudiamo abbassando l’ascia di guerra. Grazie per esservi
prestati al gioco. Un disco che in fondo non cerca orpelli che forse
oggi la moda ha reso abusati. Come avete saputo driblare queste mode
così invasive e restituirci un suono che, a mio orecchio, ha quel
fascino di un cantautorato anni ’70?
È stato un piacere, ci siamo divertiti molto ad “analizzare” e rispondere alle domande. Dunque, dribbling sulle mode e cantautorato anni ’70. Questa è stata la parte più facile, mi spiego: non abbiamo sufficiente esperienza o malizia per poter “calcolare” cosa fare o come farlo in maniera tale che il risultato sia funzionale a specifici obiettivi. Abbiamo fatto, al meglio delle nostre possibilità, quello che sappiamo e, soprattutto, che ci piace. Questo disco ci ha fatti divertire e non per modo di dire, è stato come partecipare ad un bellissimo gioco. Dicendo questo non voglio assolutamente sminuire il valore o i contenuti de “Gli inquilini del sottoscala”, al contrario: sto dicendo che si è trattato di un lavoro fatto da musicisti con il solo fine di poter dire “abbiamo immaginato, inventato, scritto e suonato queste storie e siamo contentissimi del risultato”.
Ancora grazie e a presto.

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