Interview: Fabio Viassone (We Are Waves)

Evoluzione, trasformazione, cambiamento. Tutto si muove intorno a noi: persone, usi, costumi, mode, musica. Si, anche la nostra fedele compagna. Questo 2020 è stato particolare; ci siamo fermati forzatamente; quest’anno ci ha imposto una pausa obbligatoria. Tutti noi abbiamo avuto modo di scavare più a fondo su questioni più o meno esistenziali, no? Tra le altre cose, io ho riflettuto sulla musica – settore già particolarmente in crisi – sul suo “stato di salute”. Ho voluto approfondire alcuni aspetti con Fabio Viassone, voce dei We are Waves. Ne è uscita un’intervista davvero interessante...

Oggi tutto è alla portata di tutti, grazie al web… Il lato positivo è che un gruppo può pubblicare la sua musica senza difficoltà, a differenza del passato. Tuttavia, non c’è alcuna selezione in entrata e in uscita…

È il sistema del 2020. Giusto poco tempo fa leggevo un controverso articolo del CEO di Spotify che invita gli artisti a produrre più contenuti più rapidamente, perché il pubblico si stanca in fretta…è evidente che il concetto di fruizione stia cambiando radicalmente. La musica non fa eccezione, anch’essa è un contenuto e si va a porre negli standard di un video su YouTube o una story su Instagram. Come in tutte le epoche ci sarà chi saprà interpretare bene lo spirito del suo tempo e tirerà fuori prodotti nuovi, adatti a questo tipo di fruizione. Noi nel nostro piccolo abbiamo optato per una linea “old school”, considerandoci un presidio Slow Food in un mare di Deliveroo. Pochi piatti di qualità, serviti lentamente. Chi apprezza questo tipo di attitudine continuerà a seguirci.

Oltre alle piattaforme digitali, al web in generale, ci sono i talent quali vetrina e trampolino di lancio. Cosa ne pensi?

Niente di cattivo a differenza di quello che si può pensare; presi per quello che sono, una semplice industria di entertainment che crea prodotti adatti a quel tipo di target, non fanno male a nessuno. Il problema, per fortuna abbastanza tramontato, era che negli anni passati hanno “sbordato” ergendosi a unica proposta culturale e spesso unico modo per costruire una carriera pop. Ma quella moda mi sembra abbastanza tramontata; in questo possiamo ringraziare altri generi saliti alla ribalta negli ultimi 3/4 anni che hanno reso i vari Valerio Scanu decisamente cringe.

Rispetto al mondo delle agenzie di booking, uffici stampa, credi abbiano un ruolo decisivo ai fini della visibilità di un gruppo, sia in termini di ascolti, sia in termini di recensioni e concerti?

Booking e uffici stampa sono due mondi radicalmente diversi. I primi sono quasi indispensabili per fare il salto e potersi permettere situazioni più strutturate. I secondi possono essere un validissimo alleato, ma trovo che in Italia siano rimasti un po’ indietro: in un epoca di social media e comunicazione digitale molti credono ancora che sia realistico chiedere agli artisti 1500 euro per un’esclusiva video e 10 recensioni su webzine e “riviste cartacee” di cui 7 in blog semisconosciuti. Se non cambieranno passo integrando una strategia di comunicazione più fresca e sveglia, in linea con gli altri modelli di comunicazione in settori non musicali, sono destinati all’estinzione.

Capitolo live. Ho notato che suonate maggiormente all’estero, e poco in Italia. E’ difficile organizzare un tour in Italia? Non è conveniente? Cosa funziona e cosa non funziona in Italia.

L’Italia è un paese con molta offerta e poca domanda. Mentre il pubblico mostra una curiosità trasversale a molti generi, promoter e gestori di locali sono ancora attaccati a una “logica da localaro” che vuole incassi sicuri con spese minime. Quindi le mode la fanno da padrone. Negli anni 2015/16 un certo post-punk andava di moda; ricordo un gruppo oltranzista come i Soviet Soviet essere addirittura headliner al Miami Festival. Quei due anni abbiamo fatto oltre 130 date in Italia. Dal 2018 con la sdoganatura di ItPop e Trap la domanda si è ridotta notevolmente. Ma siamo abituati a suonare un genere di nicchia, che vive di sporadiche luci e tanto lavoro sotterraneo di pochi fedelissimi.

Credi ci sia un problema di tipo culturale? Nel senso che un certo tipo di musica non riempie i locali?

Più che altro c’è un “problema” (ho messo le virgolette perché in realtà non lo ritengo tale) di mode; all’estero hanno un atteggiamento più rilassato nei confronti delle varie tendenze musicali che si alternano rapidamente…qui diventa subito una questione di vita o di morte, di coolness ostentata, di paura di essere lasciati indietro, di giri e giretti. Una nuova moda esclude immediatamente tutte le altre e tutti si standardizzano immediatamente su quella, cercando di far più bottino possibile.

Ci sono degli ostacoli – oltre a quelli di cui abbiamo parlato – per un musicista oggi?

Sicuramente deve fare molta attenzione a muoversi e, rispetto ad epoche passate, gli viene richiesto da subito di essere molto più smaliziato e consapevole della gestione del suo progetto anche da un punto di vista, diciamo, imprenditoriale. Il che, se per qualcuno può essere una buona palestra, per altri può rappresentare una grande fonte di ansia, che alla lunga mina la creatività e il piacere di fare semplicemente la musica che ti piace.

Veniamo agli ultimi giorni. Come hai vissuto questi mesi di lock-down?

Abbastanza male, come tutti credo. Vivo in una piccola mansarda di 40mq, dove solitamente stavo poche ore alla settimana per dormire, mangiare un boccone e fare una lavatrice. Rimanerci inchiodato dentro per 3 mesi è stato pesante, soprattutto dalla 5° settimana. Ma sono venute fuori anche cose interessanti da quell’isolamento forzato, che però si sono manifestate dopo…è come se avessi accumulato stimoli che poi, una volta rientrati in una semi-normalità, si sono trasformati in nuove idee creative.

La soluzione, o meglio il palliativo all’assenza di concerti sono stati concerti in streaming, dirette social… cosa ne pensi?

Ne abbiamo fatti un paio anche noi. Era sicuramente più un concetto di “stiamo vicini” che di vera qualità musicale…anche perché più che acustici improvvisati o dj-set non è che potevi fare. Ma è servito per darci un tono e dare un minimo di continuità artistica…mesi di silenzio totale sarebbero stati tremendi per tutti.

La pandemia ha avuto un grosso impatto su un settore già piuttosto debole. Come pensi si possa sostenere la scena musicale? A livello istituzionale, sia locale che nazionale, credi che siano state adottate misure sufficienti a sostegno degli artisti?

Al contrario, il settore musicale è stato forse quello più trascurato dalle varie proposte del Governo. Sicuramente c’è un mix di elementi. Da un lato la miopia della classe politica nel non considerarlo un settore lavorativo a pieno (è uscito in questi giorni un bell’articolo su Rockit riguardo la disparità di trattamento in termini di divieti per quanto riguarda discoteche ed eventi musicali). Dall’altro sicuramente la “zona grigia” in cui molti operatori del settore e musicisti vivono, non avendo nessun tipo di ordinamento giuridico e campando alla giornata in nero, non aiuta…se scegli di non esistere, poi è difficile reclamare dei diritti.

Sostegno ai club, tassazione, luoghi ricreativi, laboratori… come siamo messi in Italia?

Mi sa che ti ho già risposto…non bene! Anche se ovviamente non si può generalizzare, ci sono tantissime realtà che si stanno ritagliando uno spazio importante e lavorano ogni giorno per poter essere riconosciute come aziende a tutti gli effetti, con una proposta artistica/culturale continuativa e di qualità.

Pare che il senato berlinese darà ingenti aiuti economici a club, sale concerti. Evidentemente i politici tedeschi hanno capito la rilevanza culturale ed economica che riveste la musica. Perchè in Italia non ce la facciamo?

È vero. Occhio però a non farsi prendere dalla sindrome che all’estero è tutto meglio. I Club di Berlino come il Berghain sono vere e proprie attrazioni turistiche mondiali che fatturano milioni di euro l’anno; spesso sono il motivo per cui molti giovani si recano a Berlino (e comunque negli ultimi 2 anni ne hanno chiusi una decina). Sono quindi l’equivalente dei nostri musei o monumenti più importanti. È ovvio che vengano preservati in una maniera differente e che abbiano un peso diverso all’interno del PIL nazionale. Da noi sarà sempre più importante il Colosseo che il Magnolia. È forse è giusto così.

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