Interview: Cadori

Non puoi prendertela con la notte è la conferma che Giacomo Giunchedi, in arte Cadori, ha davvero qualità importanti che, sempre di più, stanno emergendo. Ci aveva felicemente colpito il suo esordio, datato 2014, ma ora è tempo di celebrare un nuovo disco che approfondisce e sviluppa i temi e le musicalità di quel primo lavoro, meritandosi applausi e complimenti. Non potevamo non approfondire il discorso proprio con lui, ringraziandolo ovviamente per la disponibilità…

Ciao Giacomo, come stai? Da dove ci scrivi?

Ciao Ricky, tutto bene, ti scrivo da Bologna nel giorno in cui c’è un’importante manifestazione in corso a favore della riapertura dello spazio occupato Làbas, nella quale tra poco mi fionderò.

Nuovo album appena uscito, quali sono le tue sensazioni al momento?

Se devo dirtela tutta ho una voglia matta di sviluppare del nuovo materiale. Lo sto facendo mentre provo i pezzi di Non puoi prendertela con la notte per i live. Saltano fuori nuove idee che mi stanno piacendo particolarmente. Per il resto sono curioso di vedere che reazione avranno gli ascoltatori, ma come ti ho appena detto sto già guardando avanti.

Il tuo primo album usciva nel 2014. In 3 anni hai continuato a dare assaggi (in forma breve) della tua musica, dimostrando che quella via intrapresa nell’esordio era una strada che sempre più stai facendo tua con grande personalità. Cosa hai voluto mantenere di quel primo disco, in termini di approccio, in questo album?

Direi poco. Non puoi prendertela con la notte ha avuto una gestazione molto più lunga e più libera, slegata da ogni tipo di scrupolo su ciò che può pensare l’ascoltatore, cosa che nel primo disco invece mi interessava di più e che credo all’epoca abbia condizionato la mia fase creativa. In questo disco ho invece deciso di concentrarmi sulle mie idee senza troppi compromessi.

Inizierei proprio dalla prima traccia Quello Che Resta, penso che la sua posizione, l’apertura dell’album, sia tutt’altro che casuale: un vero e proprio biglietto da visita in musica su quello che si andrà a sentire, sbaglio?

La volta in cui ho riascolato la prima registrazione di quel brano ho immaginato un uomo in una barca che attraversa un mare in tempesta. Le onde che si schiantano sulla sua imbarcazione contro le quali lui deve opporre la sua forza, la sua capacità di controllo, la sua tenacia. Tante cose nella vita si perdono, ma non tutte. Mi sono chiesto all’epoca del perché alcune cose restano, piuttosto di altre. Alla fine ho provato un senso di pace, di piena accettazione della perdita. E’ una canzone che parla di cambiamenti e di sopravvivenza.

Elettronica e chitarre acustiche che si cercano, si trovano e si fondono in modo magico: le basi di un sound che, però, in ogni brano non riesce a fare a meno di una dimensione “vaporosa” e “onirica”. Mi sembra proprio che per te sia fondamentale mantenere sempre viva questa sensazione…

E’ stato fondamentale farlo nel periodo in cui ho scritto e registrato questi brani. Ero in una sorta di nebbia e ho deciso di smettere di cercare un modo per uscirne, ma di provare a restarci per descrivere quello che sentivo. Tutto l’album, inteso nello scorrere dei suoi cinquanta minuti, è un viaggio attraverso un ambiente offuscato dove si procede assistendo alla saturazione progressiva di ogni elemento, alla deflagrazione di tutto.

Posso dire che Guai è un pezzo magnifico per il quale senza remore mi viene da usare la parola “pop”?

Una mattina d’estate mi sono svegliato dopo aver sognato un gruppo new wave anni 80 che cantava una canzone. Ho preso la chitarra è l’ho trascritta improvvisando un testo in italiano. Mi è venuto spontaneo descrivere il profilo di una ragazza immaginaria, schiva, diversa dalle sue altre coetanee, che non fa le cose che fanno tutti.

Sul tuo Facebook hai, giustamente, lodato l’ottimo affiatamento che hai con Giulia. Com’è nata questa collaborazione che vi ha portato anche a suonare insieme?

Ci siamo conosciuti all’interno dell’ambiente musicale bolognese. Lei aveva molto apprezzato il mio primo disco e da lì in poi è nato uno scambio di idee, pareri e consigli che ha fatto bene a entrambi e che continua a farlo. Lei ha un’impostazione prettamente cantautorale che a me manca o che gestisco comunque in maniera meno disciplinata. Alcuni suoi consigli sono spiazzanti, altri sono odiosi, così come i miei per lei. Quando parliamo di queste cose ci sono volte che discutiamo in maniera nevrotica e poi improvvisamente scoppiamo a ridere. E’ divertente.

Certo che ci vuole “del fegato” a non mettere nel disco una magia come Come l’inverno a Rimini…ma sul serio ti pare solo una b-side??!!!

E’ un pezzo a cui tengo moltissimo, scritto per una persona che non ho mai incontrato, ma con cui ho avuto un confronto artistico sui social, una disegnatrice molto brava i cui lavori mi avevano ispirato nella scrittura. Quando ho registrato il pezzo la tracklist del disco era già stata determinata e non avevo voglia di scombinarla. Ti ringrazio comunque dell’apprezzamento.

C’è qualcosa all’interno dell’album che, risentendola a lavoro finito, ti ha particolarmente sorpreso?

Probabilmente Naoko, un brano che mi piace molto. Credo che dal punto di vista dell’arrangiamento sia riuscito bene. Il merito va a Roberto Rettura, con cui ho registrato il brano e cha ha suonato la batteria in un modo stupendamente vintage.

Ma le tue canzoni nascono principalmente da un giro alla chitarra o da uno spunto ritmico al quale agganci una melodia?

In genere da una melodia molto minimale. Le cose che partorisco sulla chitarra non sempre diventano canzoni, spesso si fermano a livello prettamente strumentale. In questo prendo ispirazione da David Pajo, che ritengo uno dei miei musicisti preferiti di sempre.

Lascia senza fiato il climax di Audrey Hepburn. Era già così nella tua testa la canzone con quel finale sonico degno di Kevin Shields?

Non sai quante volte ho ascoltato MBV dei My Bloody Valentine. Da quando è uscito mi sono letteralmente drogato di quell’album. Un bagno elettrico di chitarre fuzz, elettronica rarefatta e voci soffuse che mi ha stregato. Probabilmente ha avuto una grande influenza sui miei pezzi.

Ci sono dei dischi che, ultimamente, stai ascoltando con assiduità e che ci vorresti consigliare?

L’ultimo dei Mount Kimbie (come del resto la loro intera, e ancora breve, discografia), Pleasure di Feist, Opposites dei Parlor Walls (una bomba soft-noise dall’underground di NYC).

Dal vivo il disco manterrà una veste più acustica o non perderà comunque l’approccio più rumoroso?

Per ora ho due set molto diversi, quello voce/chitarra e quello con synth, drum-machine e chitarra elettrica. Il primo è più intimo e naturale, il secondo è invece molto carico. Mi diverto a ribaltare i brani, a sventrarli, a reinventarli. Nel momento in cui suono dal vivo i miei pezzi li trasformo, come se fossero fatti di una materia fluida che amo plasmare sostenendomi sulle ritmiche e sui bassi.

Grazie ancora per la tua disponibilità Giacomo, con quale canzone dal nuovo disco ti piacerebbe chiudere la nostra chiacchierata e mi spieghi il perchè di una determinata scelta?

Ti direi Santa Mattina, che è il pezzo a cui ho lavorato con più attenzione e che all’interno della tracklist svolge un ruolo centrale, di passaggio da un “lato” ad un “altro”, un po’ come il cubo blu che si trova al centro della trama di Mulholland Drive di Lynch.

Ti saluto, Ciao 😉

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *