Peter Kernel – White Death & Black Heart

GENERE: post-punk, indie-rock.

PROTAGONISTI: Aris Bassetti: voce, chitarra; Barbara Lenhoff: voce, basso; Ema: batteria.

SEGNI PARTICOLARI: secondo album per la band di stanza nel Canton Ticino, a tre anni dal debutto ‘How To Perform A Funeral’. In mezzo ci sono stati un Ep pubblicato solo in vinile ed un altro vinile di musica sperimentale intitolato ‘Il Pomeriggio Non Si Sa Bene Cosa Fare’. È anche avvenuto un cambio di lineup: da quartetto, la band si è ritrovata trio, con l’uscita della chitarrista Anita e del batterista Dawis rimpiazzati solo dal nuovo batterista Ema.

INGREDIENTI: fondamentalmente, una miscela equilibratissima dei due generi sopra citati. Queste canzoni sono cupe, nervose e refrattarie ad essere incasellate in una struttura precisa come vogliono i canoni del post punk ma allo stesso tempo hanno la rotondità, la definizione dei dettagli, sia compositivi che sonori, e la compattezza del miglior indie-rock. I Peter Kernel avevano già mostrato la tendenza ad una rielaborazione delle due tipologie musicali che creasse un connubio tra esse, ma qui il cerchio viene perfettamente quadrato. C’è una reale impossibilità a distinguere gli elementi post-punk da quelli indie-rock, ma ognuna delle varie componenti che ogni volta entrano in gioco vede una compenetrazione stilistica totale. Questa padronanza dei propri riferimenti ha poi una conseguenza importante, ovvero che il ventaglio delle soluzioni proposte nel concreto è particolarmente ampio. Probabilmente, per chi conosce già il gruppo, la differenza più evidente rispetto al passato risulterà il coinvolgimento molto maggiore di Barbara nel cantato. Aris non è più, ormai, la voce principale, ma si divide equamente i compiti con la compagna di band (e di vita), anzi, forse è lei a prendersi la scena per la maggior parte del tempo. Barbara mostra una buona versatilità vocale: spesso il suo cantato è secco e tagliente, ma sa anche ammorbidirsi quando serve. Questo aumento delle idee che riguarda le voci permette un altrettanto importante fantasia anche nella parte strumentale, o forse ne è una conseguenza, chissà, lo chiederemo ai protagonisti. Sta di fatto che la chitarra si divide tra violente scariche di elettricità e riff ora parimenti granitici ed ora invece più cesellati, mentre la sezione ritmica passa da una violenza quasi tribale ad una consistenza più convenzionale a momenti quasi di rarefazione. Lo sviluppo dei brani non può che essere ogni volta diverso e così sono anche le sensazioni espresse. Certo, si tratta sempre di emozioni forti ed in qualche modo scomode, ma all’interno di questa categoria, l’esplorazione del trio è vasta: c’è la sfrontatezza derivante dal saper bastare a se stessi nell’iniziale ‘Anthem Of Hearts’; c’è la forza di un innamoramento a prima vista che porta con sé un’ansia che è motore di una complicata girandola emozionale in ‘Panico! This Is Love! ’; c’è la tensione sottopelle per una situazione difficile che affiora sempre più man mano che le speranze per un lieto fine si affievoliscono, ma che non esplode mai del tutto lasciandoci in un disagio sottile ma angoscioso nei due brani legati tra loro ‘Tide’s High’ e ‘Captain’s Drunk! ’; c’è la necessità quasi fisica di abbandonare ogni freno inibitorio comportandoci in modo selvaggio come fossimo uomini primitivi in ‘The Peaceful’; c’è la frenesia del nostro tempo, dalla quale è possibile scampare ma che se riesce ad avvolgerci non ci lascia scampo in ‘Organizing Optimizing Time’; c’è, infine, il gelo spettrale della strumentale conclusiva ‘There’s Nothing Left To Laugh About’. Tutte le diverse sfaccettature sopra citate sono allo stesso tempo causa e conseguenza di un risultato finale che, oggettivamente, gode di un impatto devastante.

DENSITA’ DI QUALITA’: questo disco merita il massimo dei voti perché non è semplicemente concepibile che scelte artistiche come quelle esposte sprigionino sensazioni più forti e realistiche di queste. Quando la band ci fa l’elenco delle cose a cui non è interessata, se ce le trovassimo di fronte le butteremmo via; quando viene descritto il panico dell’innamoramento, l’agitazione sale alle stelle; quando ci rendiamo conto che la marea è alta ma il capitano della nave è ubriaco e non sarà mai in grado di portarci in salvo, ci si gela il sangue nelle vene; quando Barbara ci esorta ad alzarci e combattere sentiamo l’odore del sangue del nemico attorno a noi. E tutto questo avviene non solo grazie ad una grande forza espressiva, ma anche alla citata personalità nel non limitarsi ad accostare i propri riferimenti, ma a maneggiarli con estrema scioltezza creando con essi una miscela difficile anche solo da immaginare e da descrivere, ripetiamo, sia nella scrittura delle canzoni che nell’utilizzo dei suoni e dei ritmi. D parte nostra, non possiamo far altro che prendere la sicurezza di sé dell’inizio dell’album ed affermare che questo disco è un capolavoro e che nessuno che lo ascolterà potrà pensarla diversamente. Una recensione apparsa in questi giorni dice che “questo è il disco dell’anno perché contiene la musica che contiene”: ecco, in sei anni che scrivo di musica non ho mai copiato alcuna frase da altri colleghi, ma stavolta faccio un’eccezione, perché si tratta della più sacrosanta delle verità.

VELOCITA’: a parte l’accoppiata sulla nave che affonda ed il giro strumentale che conclude il disco, c’è sempre una buona dose di ritmo nei brani, utilizzato, come si diceva, con tempi e modalità diverse.

IL TESTO:We don’t care about having something fast, making something last, building up our past! We! Don’t! Care!” le prime parole del disco, urlate da Barbara nel singolo ‘Anthem Of Hearts’ fanno già caire che qui non si scherza.

LA DICHIARAZIONE: Aris a ‘architettisenzatetto’: “La bellezza di qualcosa vive del contrasto con quanto di brutto vi è attorno”.
White Death & Black Heart
IL SITO:Peterkernel.com’.

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