Intervista – Francesco Pintus

Esistono ancora artisti ben disposti a raccontare, attraverso la propria musica, qualcosa che esuli dalla semplice narrazione personale; il più delle volte, chi incarna lo spirito “generazionale” nemmeno sa di farlo, muovendosi nel terreno della congettura auto-referenziale e ignorando il respiro ampio che i dilemmi individuali possono assumere, collettivizzandosi, quando vengono raccontati con parole giuste.

Insomma, “Inverni” di Pintus è un disco che si fa ascoltare con piacere, nove tracce che raccontano una dimensione intima che esula dal personalismo per farsi di tutti: canzoni leggere che sanno toccare corde profonde, riattivando l’attenzione su una scuola cantautorale in emergenza ed emersione, che merita di essere approfondita e ri-scoperta.

Pintus, ben trovato su Indieroccia. Un disco che, oggi, sembra quanto mai deciso a raccontare una visione del mondo che intreccia cantautorato “vecchia scuola” e pop dal respiro moderno. Ma come nasce l’idea di questo disco, e quali erano i valori che ti stava a cuore raccontare?

Come tutti i primi dischi ha avuto una gestazione molto lunga, l’idea è nata successivamente. Dopo aver scritto e suonato in giro per circa tre anni durante il periodo universitario, quando ho sentito che fosse il momento giusto ho tirato una linea, ho preso tutte le canzoni che avevo (circa una ventina) e notando che alcune avevano un filo comune legato all’interiorità in varie sfaccettature (quelli che chiamo inverni), ho capito che dovevano stare insieme in un disco. I riferimenti al cantautorato classico e al pop più moderno non sono cercati o voluti, credo siano i miei ascolti che sono confluiti nella mia scrittura (almeno in quella di questi pezzi). 

Hai lavorato in studio con due nomi importanti della scena contemporanea, Fabio Grande e Pietro Paroletti. C’è qualche aneddoto legato alla registrazione del disco che ti va di raccontare, qualche ricordo che continui a cullare con piacere?

Ce ne sono due e riguardano due pezzi. Il primo è su Inverni, la title track del disco. Come per tutti i pezzi abbiamo preso una prima guida chitarra e voce. Poi per buttare giù un’idea di ritmica Pietro si è seduto alla batteria e con un solo microfono ambiente ha registrato un beat mentre io dall’altro lato suonavo una linea di basso che avevo scritto a casa per il pezzo. Chiusa questa registrazione, riascoltandola con Franz Aprili quando ci ha raggiunto qualche giorno dopo in studio per registrare le batterie abbiamo capito che non c’era tanto altro da fare, abbiamo aggiunto qualche linea di elettrica ed il pezzo è esattamente quello che sentite, adoro l’autenticità di quella canzone.  Il secondo è su fuori fase: al primo ascolto abbiamo bocciato la pre-produzione che avevo fatto a casa (e meno male!) e per trovare una nuova quadra ci siamo messi a mo di sala prove tutti e quattro (io, Fabio, Pietro e Franz) a suonare il pezzo cercando di riarrangiarlo, quel ricordo lo porto dentro con orgoglio perché sono tutti musicisti che stimo tantissimo. 

Da “Fuori Fase” ad “Erisimo”, attraverso i singoli estratti dall’album hai saputo restituire all’ascoltatore un’ottima “preview” di un disco denso e, a tratti, decisamente sofferto. C’è un brano, tra gli altri, al quale sei particolarmente legato?

Si, piuttosto sofferto ma senza lagne direi, nel senso che non è un disco che si lamenta ma semplicemente che si accetta. Credo che Patologico sia uno dei brani a cui sono emotivamente più legato, perché è crudo, è l’unica volta in cui scrivendo sono riuscito a mettere in musica esattamente quello che pensavo senza troppo lavoro di scrittura o narrativo. 

Ci sono alcuni brani di questo disco che, pur partendo da condizioni personali, richiamano ad un’alterità che diventa collettiva. Credi che esista, nel tuo disco, uno slancio che potremmo definire generazionale? Quali pensi che siano, oggi, i maggiori dilemmi della tua generazione?

Questa domanda è un po’ complessa nel senso che per me è un insieme di canzoni frutto della mia esperienza personale. Chiaro è che ho vissuto una vita magari comune a molti e quindi in un certo senso poi qualcosa diventa generazionale.  Siamo la generazione dell’inadeguatezza, credo, ma ce la siamo un po’ creata da soli. Siamo la prima generazione che ha iniziato a interrogarsi sul significato del lavoro non solo come strumento per condurre una vita senza lacune significative ma che vede il raggiungimento del binomio lavoro-passione quasi come un’ossessione (parlo anche di me, sia chiaro). Questo è accentuato dai social-media che ci mostrano quotidianamente che effettivamente è possibile che sia così (sbagliando, perché i casi sono rari), questo allora genera in chi senso di rivalsa, in chi frustrazione. 

Del tuo ultimo singolo, hai anche prodotto un videoclip che ci è piaciuto tanto e lasciamo qui sotto ai nostri lettori. Ci racconti com’è nata l’idea, e hai in futuro intenzione di “bissare” l’esperienza?

Il video di Tasche Vuote è una delle cose di cui sono più orgoglioso, è tutto frutto del lavoro di un collettivo indipendente di Padova che si chiama Stranding Studios. Sono ragazzi con una passione e una professionalità enorme, che conoscevano la mia musica e mi hanno proposto di collaborare. Da lì ho dato loro carta bianca, mi hanno descritto la sceneggiatura e in tempi record il video era pronto.

Raccontaci quali sono le cose che fanno più paura a Francesco Pintus, e quali invece gli stimoli che continuano a darti la forza di continuare.

Ho paura di spezzare i pochi equilibri che ho, di perdere persone care o di non ritrovarmi più nelle cose che faccio. Continuo perché ogni giorno trascorso come vorrei, vale più di molti giorni trascorsi per inerzia.

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