Intervista: Federico Albanese
Da dodici anni Federico Albanese tra gli autori italiani di musica classica contemporanea più importanti. Da otto anni vive a Berlino dove la sua creatività ha trovato terreno fertile.
Per comporre il nuovo album, dal titolo Blackbirds and the Sun of October, è tornato in Italia, nel Monferrato dove lo abbiamo raggiunto mentre sta preparando il tour che lo vedrà in Messico, Canada e Germania, UK e Irlanda, dove ci ha raccontato come è nato questo lavoro e da dove è arrivata l’ispirazione dei nuovi brani.
IR: dove sei adesso?
FA: sono in Italia, mi sto, preparando a partire per il tour e sono in quella fase di “pre tutto”. Non vedo l’ora di partire con il live perché voglio suonarlo dal vivo il disco.
IR: Berlino l’hai lasciata in modo definitivo o è solo un momento?
FA: no, ancora vivo lì, cioè faccio un po’ da spola, ma essendomi innamorato della campagna italiana e dopo tanti anni di vita nella capitale tedesca è una bella scoperta, cerco di prendere il meglio di tutti e due i mondi.
IR: non è un ‘ritorno a casa’ perché tu non sei di del Monferrato.
FA: il Monferrato l’ho scoperto nell’autunno di due anni fa per caso, lo conoscevo solo di nome, ma non c’ero mai stato. Me ne sono innamorato e ho deciso di iniziare un percorso di produzione qui anche perché dopo tanti anni ad aver prodotto, composto, scritto, registrato, musica a Berlino avevo l’esigenza di un cambio di “scenario”, anche dal punto di vista creativo.
La musica strumentale ti porta spesso a essere molto influenzato dall’ambiente esterno e la necessità che avevo dopo tanti anni e tanti dischi prodotti in quel contesto di provare a cambiare aria e vedere cosa succedeva.
Sinceramente non me lo aspettavo perché non ero partito con l’idea lavorare qui, ci sono arrivato per caso mi sono poi lasciato trasportare.
Questo luogo mi ha dato molto dal punto di vista anche della mia vita personale e mi ha portato a scrivere un disco che “parla” anche un po’ del luogo.

IR: ti sei costruito uno studio a casa o hai usato luoghi che esistevano già lì zona? Ti ricordi la Mescal di Valerio Soave? Aveva gli studi a Nizza Monferrato…
FA: sì certo me la ricordo! ma no ho iniziato ad abbozzare alcuni brani a Berlino, poi facendo spola qui portavo in macchina una serie di strumenti e di cose che mi potevano ispirare in qualche modo. Mi fermavo qui per un mese e poi tornavo su. Era sempre tutto un andare avanti e indietro.
Devo dire che dal punto di vista creativo e produttivo è un ottimo esercizio cambiare scenario molto spesso, ci si rende conto del buono e del brutto di entrambi i luoghi.
E’ utile per trovare l’ispirazione giusta, spesso mi sono ritrovato a ragionare e a pensare ai brani che poi sono finiti in questo disco a Berlino, pensando a questo luogo.
Avere il “piede in due scarpe”, come si dice, mi ha certamente aiutato.
IR: invece riguardo ai brani del disco ho trovato che Blackbirds and The Sun of October riassuma tutto l’album.
FA: precisamente sì. Hai colto proprio in pieno la cosa, sì.

IR: altri brani come Song of the Village li trovo decisamente ‘primaverili’ che viaggiano verso una ‘rinascita’
FA: certo mi ritrovo assolutamente, anche perché devi pensare che l’album è stato costruito nell’arco di parecchio tempo, con l’idea iniziale nata in autunno, anche Blackbirds and The Sun of October si è sviluppato nei mesi successivi e in stagioni diverse e ovviamente la musica ne ha risentito.
Vedi, al momento di quella illuminazione, in quel momento iniziale di ispirazione che è stato proprio quell’ottobre che non dimenticherò mai, mi ha lasciato senza fiato.
Immagina di arrivare da una città molto caotica in eterna evoluzione, in un luogo praticamente immobile nel tempo, questo ha creato una diversa prospettiva nel mio processo creativo, è iniziato tutto lì.
Altri brani come The Prince and the Emperor sono arrivati dopo, nell’arco dell’anno, in diverse stagioni e il Monferrato è diventato una parte fondamentale di questo disco.
Mi sono perso a studiare, ragionare e a guardare i miti, le leggende e le storie del posto e a visitare i luoghi e imparare a conoscere il più possibile e sono arrivati tutte tutti gli altri pezzi.
IR: quale brano è stato più complicato da concludere?
FA: Blackbirds and The Sun of October, sicuramente, ma perché è un pezzo che in qualche modo si stacca da quello che ho fatto e ci ho lavorato molto. Poi magari il risultato finale è comunque in linea con tutto il resto, però per il modo di comporre e scrivere che ho avuto fino adesso è un brano che si stacca da tutto il resto: c’è lo swing, del blues con una sezione ritmica abbastanza forte tanto che potrebbe essere stato fatto da una band.
IR: hai suonato tutto da solo?
FA: Sì tranne gli archi.
IR: ma se riuscito a registrare con dei musicisti in studio?
FA: interessante, non me l’ha chiesta fino adesso nessuno! C’è stato un lavoro di post produzione, che è stato fatto a Berlino in studio e lì ho registrato gli archi con musicisti con cui collaboro da tanti anni. Anche la masterizzazione è stata fatta a Berlino.
Il cuore del disco è nato qui nel Monferrato ed è stato registrato qui per la maggior parte: il pianoforte come la produzione artistica iniziale è stata fatta qui. Poi l’overdubbing in Germania.
IR: Il tuo brano “Your spell” mi ricorda il lavoro di Laura Masotto con cui hai diviso il palco qualche tempo fa. Da cosa ti è stato ispirato?
FA: l’ ho scritto intorno tra dicembre e gennaio. E’ nato da una melodia che avevo in testa, una progressione armonica, che però non riuscivo a risolvere, è stato un flash.
La cosa straordinaria di questo luogo, è questa capacità di rendere semplice tutto: dalle conversazioni mattutine, al rendere il caffè al bar, al comprare i giornali.
Quando vivi in un paese estero anche per tanti anni, in qualche modo sviluppi come una sorta di protezione, una specie di corazza che non ti fa sentire mai veramente “a casa” in qualche modo.
Non nonostante a Berlino siano nati i miei figli, è una città che mi ha dato e mi continua a dare tutto non sarà mai “casa mia”.
C’è questo aspetto molto preciso e l’aspetto creativo ne risente e quando sono tornato qui “nel mio paese di origine” (intende in Italia ndr) per fare un progetto è come se avessi ritrovato tutte quelle piccole meraviglie dell’avere il linguaggio che sai gestire, le chiacchiere alla mattina, il caffè al bar, il giornale… poi in questi paesi antichi dove il tempo un po’ fermo c’è questa empatia tra le persone, con le persone e con l’ambiente.
Tutto si muove tutto in un modo molto organico e preciso, come il cambio delle stagioni, le cose che devi fare perché sei in campagna: tagliare le piante, seminare, concimare, tutte cose che ti legano profondamente al luogo.
Sono tornato bambino anche se sono cresciuto a Milano, al quartiere Isola, che adesso è diventato super gentrificato ma quando ero bambino, era proprio un paesino. C’era il macellaio, la bottega, il verduraio, l’arrotino dove si conoscevano tutti e tu stavi fuori per strada a giocare e la mamma ti gridava, <<è pronta la cena!>>.
E qui è lo stesso e mi ha ricordato quello e mi ha fatto tornare bambino ed a questo che mi sono riferito per quel brano. In qualche modo gli “spell” sono quelli che immaginavo come incantesimi di uno stregone che mi avesse fatto un incantesimo e fa mi avesse fatto tornare improvvisamente indietro di quarant’anni.
Nello stesso modo “Song of the Village” è un racconto della magia di questo luogo, magico proprio per queste piccole cose che indubbiamente si sono perse. Questo essere sempre attaccati agli schermi ci ha fatto perdere questo contatto, l’empatia con l’altro, con il prossimo, con l’ambiente, con le stagioni, con il clima, con tutto quello che riguarda le semplici chiacchiere con il gommista che mentre ti cambia le gomme ti racconta della suocera, la casa e che hanno il trattore rotto.
Tutto questo mondo è un mondo bellissimo e dopo essere stato tanti anni altrove mi ha colpito e mi ha ispirato.
IR: tornando a quello che ha fatto Laura col suo album lei ha dato i brani ad alcuni producer/colleghi per fare un rework di alcuni brani, anche altri lo fanno spesso e molte volte il rework riesce meglio dell’originale. Tu pensi o ti interessa fare la stessa cosa con i tuoi brani?
FA: è una cosa che ho fatto in passato ma non è una cosa “centrale”.
Mi piace molto collaborare anche sul piano creativo o scrivere un brano insieme ad altri ed è una cosa che ho fatto in passato e continuerò a fare, perché è molto stimolante su tanti aspetti.
Il rework non l’ho mai amato, certo ci sono certi remix che sono bellissimi a volte più belli anche del dell’originale, ma spesso li ho visti usati come strumento di mercato, senza una vera idea alla base o un perché, più che altro per avere più tracce da pubblicare e per dar da mangiare ai giganti digitali.
Quindi non sono mai stato un grande fan e non li vedo come una mia priorità.
IR: vieni inserito nel ‘filone’ della musica classica contemporanea, mondo molto vario in realtà. La direzione che hai preso con questo lavoro è simile a quello che hanno fatto Nils Frahm o Olafur Arnalds cioè allargare lo spettro musicale e non rimanere solo sulla “acustica” ma utilizzare mezzi e suoni lontani dal concetto di ‘classico’.
Per te è stato frutto di un’idea di un percorso che si sta evolvendo negli anni oppure è stato frutto dell’esigenza creativa del momento?
FA: questo è un percorso che ho intrapreso circa 12 anni fa, che ad ogni album e ogni progetto è cresciuto, è stato come mettere i mattoni su un muro. Il percorso che voglio fare penso di averlo abbastanza chiaro davanti a me, che poi è lo spirito della mia ricerca musicale.
Non mi sono mai veramente considerato un pianista. Ti confesso che per me il pianismo è una arte che io non ho, non sono in grado di riprodurre Chopin e Rachmaninov e penso che il pianismo faccia parte di quel mondo lì.
Il pianoforte è sempre stato con me tutta la vita, per cui ho continuato sempre a suonarlo, senza mai arrivare a quel livello quindi la mia ricerca si non si basa esclusivamente sul pianoforte.
Mi piace anche spaziare, variare e muovermi all’interno di svariati generi che non necessariamente sono commerciali anzi spesso e volentieri no, quindi in realtà ci potrà stare in futuro che magari decido di fare un album di piano solo ma ancora non lo so.
Comunque in questo disco ci sono più elementi di solo pianoforte rispetto ai dischi passati, ma non è una scelta premeditata, è stata un’esigenza creativa.
IR: Dal vivo ti presenterai con dei musicisti o in solo?
FA: allora il primo giro penso che sarà sicuramente da solo e poi piano piano aggiungerò qualcun altro.
Certamente questo è un disco che si potrebbe anche suonare con anche 7 o 8 elementi sul palco ha uno spettro molto variabile e a me piace comunque riarrangiare i miei brani non è che mi siedo su una produzione finita, cerco sempre di dare al mio live un’atmosfera unica. Alcuni brani rimangono simili al disco altri quasi irriconoscibili.

IR: cosa stai ascoltando ultimamente?
FA: a dire la verità non molta roba nuova, non in modo ossessivo, amo più i classici.
Ai miei figli cerco di fare ascoltare i cantautori come Rino Gaetano, Francesco De Gregori, Guccini… loro ascoltano gli Image Dragons e the Weeknd che non capisco ma apprezzo come i brani siano costruiti invece la musica italiana come la trap non mi piace e anche musicalmente non mi dice nulla.
L’altra sera mi sono messo ad ascoltare John Barleycorn must die dei Traffic e mi sono sentito bene, mi sono rilassato con questo capolavoro della storia della musica e a cui sono legato, se devo scegliere cosa ascoltare torno a dischi di quel genere.
IR: invece nell’ambito della musica che produci non ascolti altri artisti?
FA: chiaro se capita che esca il nuovo album di Olafur Arnalds l’ascolto con piacere, anche Nils Frahm, loro fanno ottimi lavori, traggo molti spunti, anche dalle ottime produzioni.
Certamente diciamo che io ho inquadrato la loro ricerca in una certa direzione ma penso di avere il mio sentiero e lo seguo, poi ovviamente loro sono stati molto bravi, penso anche in passato, ad aprire delle porte e questo gli va riconosciuto, come anche ad altri compositori come Ludovico Einaudi che ha comunque aperto la porta ad un pubblico che prima non c’era.
IR: invece musicisti italiani che vedi affini al tuo percorso?
FA: a Berlino ho conosciuto Dario Faini, Dardust. Era venuto a suonare lì e poi era venuto a vedrmi in concerto e poi ci siamo conosciuti, lui è un grande fan della mia musica, abbiamo anche chiacchierato tanto.
Lui in qualche modo mi sembra che in questo momento in Italia stia cercando di portare questo genere di musica in modo diverso, benchè il suo lavoro è più epico e in qualche modo più forte, anche visivamente, del mio, sta suonando in luoghi abbastanza significativi, sia come valore artistico che come grandezza cosa non affatto scontata.