Interview: Paolo Saporiti

Paolo Saporiti è un songwriter sui generis: nel suo modo di interpretare la musica domina la cura per i dettagli e la profondità dei testi che si fondono alla perfezione con la sua voce calda. Lo accompagna nel suo viaggio musicale l’immancabile chitarra acustica con la quale compone. Giunto alla ribalta per il suo tipico cantato in inglese, già dallo scorso anno Paolo Saporiti con il suo album omonimo ha intrapreso un nuovo percorso che lo ha portato a cantare in lingua italiana. Percorso, proseguito anche in Bisognava Dirlo di fresca uscita.  L’ultimo lavoro di Saporiti è un disco dai due volti, visto che le sei tracce sono state incise da un lato suonandole con la propria band e nell’altro lasciandole alla visione del polistrumentista Xabier Iriondo che ne offre un taglio irresistibile. Saporiti si è reso disponibile per una intervista telefonica.

Generalmente il primo disco di un cantautore porta il nome stesso dell’artista, mentre il tuo personale percorso ti ha portato a chiamare Paolo Saporiti l’album uscito nel 2014.
Paolo Saporiti: : L’idea è molto legata allo scrivere in italiano. Fino a quel disco avevo scritto quasi esclusivamente in inglese, ne avevo una esigenza legata a un riflesso del mondo musicale di quando ero piccolo. Con Paolo Saporiti ho deciso di provare ad arrivare in un modo diverso a un pubblico che mi corrisponde, il mio è un pubblico italiano. Non ho mai creduto nell’idea di scrivere in inglese per andare a conquistare l’estero. Era una questione di sensazione mia e di estetica. Nel momento in cui ho riconosciuto a me stesso che il bello era arrivare alle persone che sono qui, in maniera più chiara e definita ho pensato di scrivere in italiano e in quel momento lì mi è arrivata la necessità altrettanto chiara di chiamare Paolo Saporiti anche il disco. Le tematiche che mi sono trovato addosso sono diventate molto più concentrate e centrate su la mia famiglia e le mie radici, le figure che hanno fatto sì che io sia la persona che sono.

Come avviene il passaggio da Paolo Saporiti a Bisognava Dirlo?
PS: : Con Paolo Saporiti ero arrivato a fare ciò che vorrei fosse oggi la mia musica. C’era un esatto connubio di sperimentazione e cantautorato più o meno classico per quella che è la mia idea e il mio modo di fare cantautorato. Mi sono ritrovato con alcune tematiche non completamente espresse e probabilmente con una necessità di esprimere qualcosa legata al disco precedente. Ho provato ad allargare lo spettro di quello che avevo raggiunto prima cercando di forzare i limiti di quello che era Paolo Saporiti però spaccandoli in due. Dal un lato provare ad andare più incontro all’ascoltatore e quindi favorendo un mondo più tradizionale e chiaro nelle emozioni e nella fruibilità e nello stesso tempo andare verso un mondo di sperimentazione e destrutturazione quasi a togliere la melodia affidando il lavoro a Xavier che è un esperto di questa modalità.

Non è solo questione di metrica il passaggio dall’inglese all’italiano.
PS: : Sono cose che capisco io stesso passo per passo. In Paolo Saporiti c’è un brano intitolato Erica che è una canzone che ho scritto a diciotto anni e che faceva parte di una musicassetta. In quel momento il disco mi era uscito in italiano. Lo avevo fatto ascoltare e mi ero fatto l’idea di poter provare a fare questo percorso. E’ sopraggiunto più l’inglese dell’italiano perché nella mia pancia ci stava più l’inglese. La questione metrica è diventata un po’ il come applicare una metrica di stampo italiano a quella che è la mia costruzione della canzone che non è esattamente italiana. Ho dentro degli schemi e delle modalità che non sono quelle classiche del cantautorato italiano. La fortuna è stata che andando semplicemente a fondo e scavando la mia esperienza personale alla fine dei conti è scaturito da solo un modo e una metrica nuova e italiana da inserire nel contesto americano come chitarrismo e tipo di melodie. E’ tutto abbastanza immediato.

Paolo Saporiti

L’approccio è stato quello di suonare dal vivo o avresti comunque fatto le canzoni così?
PS: : L’idea parte sempre da chitarra e voce, a volte il pianoforte o il banjo. Costruisco il tessuto e pian piano appoggio strumenti e immagino mondi. Con Bisognava Dirlo l’idea è stata istantanea quindi c’è stata una spaccatura in questa modalità. Sono canzoni nelle quali canto un po’ meno aperto e un po’ più esasperato nei toni rispetto a Paolo Saporiti per questo ho avuto la sensazione di poter meglio vestire le canzoni rispetto a come prima potessero essere scarne. Ci siamo messi in studio e abbiamo iniziato a improvvisare io, Cristiano Calcagnile alla batteria e Luca Pissavini al contrabbasso e su questo abbiamo stabilito che avremmo costruito la struttura dei brani a livello di arrangiamento. Poi c’è stato Roberto Zanisi con bouzouki e dobro, Raffaele Kohler alla tromba e filocorno e Armando Corsi alla chitarra classica. Il lavoro di Xabier Iriondo è un po’ diverso perché con la mia necessità e la mia intuizione e idea di base era di prendere quelle stesse chitarre voci mie registrate nel mio mondo con la band e darle al mondo di Xabier. Sono esattamente gli stessi cantati e gli stessi accordi di chitarra.

Nel disco Bisognava Dirlo, fra i titoli della canzoni è spesso presenta la parola ‘madre’.
PS: : Credo che sia legato all’autobiografia. Sono un appassionato di psicanalisi, ho fatto analisi e psicologia per anni. Ritengo che ci siano delle modalità che hanno quasi a che fare con il mito, il simbolo e l’archetipo. La madre di cui io parlo è la madre che ho conosciuto io e la madre che può far parte di un bagaglio di un mondo più o meno condivisibile. Sono convinto fermamente che in un mondo come il nostro e per le nostra cultura in tanti possono ritrovare degli aspetti di quella madre di cui parlo. Il disco Paolo Saporiti era un lavoro similare, ma organizzato di più sulla figura paterna e di mio nonno e del mio bisnonno. Volevo tracciare un asse diretto con il mio bisnonno che è rappresentato nella fotografia e che mi assomiglia in maniera disarmante. Il titolo, infatti, deriva anche dalla scoperta che ho fatto dall’album di foto di famiglia dove mi sono visto allo specchio in una fotografia degli anni ’20 che ritraeva il mio bisnonno.

Quindi Paolo Saporiti ricalca una figura maschile, mentre Bisognava Dirlo una femminile
PS: : Sì, anche se la figura femminile è più o meno dentro a tutte le mie canzoni. Nei miei testi c’è un dialogo talmente serrato con le mie parti interiori che si posso confondere l’uno con l’altra. Si tratta comunque sempre di un gioco interiore che faccio e che presento agli altri. Faccio un esempio: parlando del complesso di Edipo, non si resta legati solo al proprio personale vissuto, ma per riferirsi a qualcosa di universale. E’ per questo che a mio avviso ci sta un certo tipo di forma autobiografica. Alla fine dei conti, presentando un mondo che riguarda te stesso comunque ha un qualche cosa che può essere riconosciuto e riconoscibile. Poi sta alla sensibilità e alla possibilità che le persone si danno di guardare il mondo che incontrano. Personalmente confido molto in questo momento storico della necessità di uno scatto del pubblico. C’è la volontà di cercare di arrivare. Il mio sogno è che si prenda Bisognava Dirlo, si ascolti il disco che trova più fruibile, che solitamente è quello acustico e senza soluzione ci si proietti nell’altra parte che è il disco suonato da Xabier che in qualche modo è una via d’accesso per l’album Paolo Saporiti.

Tra le canzoni colpisce la tua cover di Hotel Supramonte, lo intendi come un luogo reale?
PS: : No, trovo che ci sia una corrispondenza fra come è stata scritta quella canzone e il vissuto che provo. Ognuno di noi ascoltando determinate canzoni si crea delle sicurezze. Per me Hotel Supramonte ha a che fare con la fantasia e il mondo dell’Amore e quello che è il rapporto con la donna. Per questo motivo l’ho interpretata e l’ho fatta mia. E’ una canzone estremamente possibilista nelle immagini “ridammi la mano” che assomiglia talmente tanto al mondo delle mie canzoni che è un potpourri di immagini che non per forza di cose devono essere connesse in maniera filmica. Fanno parte di un mondo in cui le immagini si sommano in modo caotico, quasi inconscio come modalità.

Si tratta di una cura o un rimedio per qualche male?
PS: : Io credo che la cura, sia per noi stessi. Tornando al discorso di prima, credo fermamente anche attraverso alla musica e al modo di approcciarmi alle cose di passare quella che è la mia passione per la vita e le cose. L’aspetto modale che per me deve passare è che la cura, se di cura si può parlare, deriva dall’attenzione per sé stessi e per quello che proviamo veramente nel profondo. Cerco di basare tutto su questo aspetto. La mia vita e anche la mia musica. A me preme di esprimere tutto quello che ho dentro. Questa è una cosa che permette a me di viaggiare. Credo che a chi accetta il gioco permetta di fare altrettanto ed è un po’ la mia speranza. Mi piacerebbe arrivare a coinvolgere le persone in un treno di emozioni e di immagini che ti permette di entrare in un mondo e uscirne in qualche modo trasformato o con una possibilità di trasformazione.

Nel tuo futuro vedi ancora il cantato in italiano o si è trattata di una parentesi?
PS: : Credo che l’italiano sarà abbastanza stabile. Questo non significa che non potranno esserci le apparizioni dell’inglese. Ho già qualche brano in inglese che mi convince molto. Cerco di avere con la parola lo stesso rapporto che avevo prima. Quello che scaturisce cerco di rispettarlo. Non esiste di tradurre una cosa che è uscita dall’inglese in italiano. Piuttosto la riscrivo completamente.

Chiudendo con una battuta, qual è il colore della tua musica e quello dell’ambiente in cui suoni?
PS: : La mia musica la vedrei verde oscillando con delle punte di rosso. Per il mondo esterno ho una immagine chiara più che un colore, ma credo che la cosa sia consequenziale. L’immagine è quella di un bambino in una stanza che gioca con il suo mondo fantastico e che crea con le azioni. All’esterno c’è l’apocalisse, il disastro. C’è una finestra che potenzialmente si apre sulla stanza e l’aria che arriva da fuori è fredda. Questa è una immagine sulla quale mi sono mosso per tanto tempo. Non so bene se questa immagine si è risolta in questo ultimo momento. L’attività del bambino è perenne. E’ una necessità di vita ed è una forma che io ho trovato migliore per quella che è la mia persona. Per un po’ di tempo la finestra non è stata importante. Rappresenta una finestra più larga come lo è stato cantare in italiano. E’ tutto un percorso verso, sento che è una escalation comunicativa da un mondo perfino spaventato da quello esterno, che diventa sempre più confidenziale con il bambino. Comunicare con un esterno tanto da provare a cambiarlo quell’esterno che è un po’ il punto d’arrivo.

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