Interview: Cut

Second Skin ha dimostrato che, dopo 20 anni di carriera, con i CUT ancora non si scherza. Il loro energico rock’n’roll è capace, come sempre, di prenderci per mano, anzi, meglio, di “tirarci via”, facendoci cambiare completamente il contesto che ci circonda e il nostro stato d’animo: ennesima missione compiuta per una band che va avanti con l’età, dal punto di vista anagrafico, ma in realtà rimane sempre la stessa nell’approccio alla materia musicale. La musica come fonte di benessere, per loro, ma anche per chi ascolta. Parliamo proprio con Ferruccio Quercetti del nuovo album, ma non solo, la lunga chiacchierata tocca anche argomenti come la Gamma Pop, il Covo di Bologna, le influenze della band e persino Nicke Andersson.

Ciao ragazzi, come state? Da dove ci scrivete?
Ciao, tutto bene. Siamo piuttosto indaffarati. Io (Ferruccio – voce e chitarra) in questo momento mi trovo in Scozia dove sto facendo un lavoro per la University of Glasgow. Ultimamente sto facendo un po’ di pendolarismo estremo, chiamiamolo così, tra Bologna e Glasgow.

Spesso leggo che la vostra musica è stata la miccia per dare il via a quel progetto che fu la ‘Gamma Pop’. Immagino che faccia piacere una simile “etichetta” no?
Gamma Pop è nata per merito di Filippo Perfido che voleva pubblicare un’ideale colonna sonora in cassetta o CD da allegare a un ipotetico primo numero della sua webzine, chiamata proprio Gamma Pop (dal titolo brano dell’Alan Vega solista). Peraltro all’epoca, parliamo della metà anni 90, il concetto di webzine era ancora poco conosciuto in Italia, tanto per rimanere in tema di nuove tecnologie. Avevo incontrato Filippo quando eravamo entrambi matricole all’Università e qualche anno dopo sono nati i CUT. A questo punto abbiamo pensato di unire le forze con Carlo (Masu) che ovviamente suonava con me e che conduceva un programma radio dedicato alla musica indipendente che abbiamo subito ribattezzato Gamma Pop. Alla fine l’edizione cartacea della webzine non è mai uscita, ma siamo riusciti a mettere insieme l’esordio discografico di Gamma Pop, la compilation Metal Machine Muzak.

A questo punto Gamma Pop era diventata una record label a tutti gli effetti e quando è stato il momento di pubblicare il nostro debutto, il primo album da parte di una singola band uscito per l’etichetta, non ci sono stati dubbi sul fatto che dovesse uscire per Gamma Pop. Del resto eravamo così sicuri del fatto che la nostra musica non interessasse a nessuno in Italia che non ci è passato neppure per la testa che qualcun altro, se non la label per cui lavoravamo, potesse pubblicarla. Negli anni successivi abbiamo collaborato stabilmente con l’etichetta, anche se gradualmente il coinvolgimento di me e Carlo si è ridotto sempre di più anche per via degli impegni del gruppo.

Siamo ovviamente molto felici di aver dato il nostro contribuito alla storia di Gamma Pop, una label che, tra le altre cose, ha permesso a tante band italiane che ancora adesso sono protagoniste del nostro rock indipendente di farsi conoscere e realizzare cose molto significative. Inoltre all’epoca, non era scontato riuscire a creare dei collegamenti tra un certo tipo di realtà diverse e lontane all’interno del Paese: l’attività di Gamma Pop ha messo in relazione molte persone che hanno avuto e spesso hanno tuttora un ruolo attivo nella nostra scena. Mettere in contatto delle realtà che stimavamo, ma che spesso erano isolate l’una rispetto all’altra, era uno dei nostri obiettivi. Volevamo dare un contributo allo sviluppo del nostro circuito indipendente: speriamo di esserci riusciti, almeno in parte.

Mi piacerebbe sapere se l’approccio al lavoro e alle registrazioni per voi è lo stesso da sempre o è cambiato nel corso degli anni?
Prima di Second Skin i nostri album sono stati realizzati praticamente sempre nello stesso modo: dopo averli abbondantemente rodati dal vivo entravamo in studio con tutti i brani “approvati” che non avevamo ancora registrato e li mettevamo su nastro in presa diretta. Le uniche sovraincisioni riguardavano le parti che fisicamente non potevamo registrare mentre suonavamo le basi, qualche piccola soluzione di arrangiamento (un tamburino, un coro, un riff di organo) e ovviamente le voci. E’ capitato anche che la voce guida che utilizzavamo durante la presa diretta diventasse quella definitiva del pezzo, come nel caso di Sweet Words su A Different Beat. Pochissimo di quello che hanno pubblicato i CUT prima oggi è frutto di un’elaborazione in studio. Il lavoro lo facevamo tutto in sala prove e lo testavamo dal vivo rigorosamente in tre, o i quanti eravamo al momento a far parte della band. Gli ospiti, in caso ce ne fossero, sono sempre stati al massimo uno o due per disco e in molte occasioni coincidevano col sound engineer che era già con noi in studio e magari finiva per sovraincidere qualcosa su brani già ben definiti e strutturati (Matt Verta-Ray su Annihilation Road e Bruno Germano su A Different Beat, per esempio). In altri casi si trattava di amici che facevano capolino in studio – come è capitato spesso ai Julie’s Haircut – o di altri piccoli interventi che avevamo pianificato con molto anticipo. Le riprese non sono mai durate più di 7/8 giorni consecutivi. Nel caso di Second Skin le cose sono andate diversamente un po’ per scelta e un po’ per cause di forza maggiore.

Innanzitutto, dopo l’abbandono di Francesco Bolognini nel 2011 per un po’ non abbiamo avuto una formazione così stabile da permetterci di lavorare in sala prove regolarmente per accumulare la solita quindicina di brani da registrare tutti d’un fiato. Per questo motivo dopo l’ingresso in formazione di Gaetano di Giacinto, il nostro nuovo batterista, abbiamo deciso che non appena avremmo avuto qualche pezzo pronto saremmo andati subito in studio per fissarlo e per iniziare a mettere un po’ di materiale su nastro. La modalità di ripresa utilizzata è stata sempre la presa diretta, ma le registrazioni si sono svolte in più sessioni e nell’arco di un periodo molto più lungo.

Tanti ospiti, ovviamente quello che salta subito agli occhi è Mike Watt. Una celebrazione? Un senso di “voler essere/sentirsi una famiglia” in ambitro underground? Come mai così tante collaborazioni?
Come ti dicevo per anni i nostri dischi sono stati delle faccende quasi autarchiche, con rari interventi di qualche amico: praticamente “CUT Vs the world” o qualcosa del genere.
Più o meno a metà del 2013 però c’è venuta voglia di lavorare su una serie di brani con amici e collaboratori storici della band. L’idea era poi di rendere quest pezzii di pubblico dominio, in caso soddisfacessero entrambe le parti in causa, senza necessariamente seguire un calendario e soprattutto senza mettere alcuna pressione su di noi e sugli ospiti. Così è nato un progetto che abbiamo battezzato CUT Must Die!
Il primo brano è uscito nell’ottobre 2013 con alla voce Pete Bentham di Pete Bentham & The Dinner Ladies, band di Liverpool che abbiamo conosciuto anni fa. Un grande gruppo e persone straordinarie con cui ci si aiuta a vicenda per concerti, tour, date insieme da una parte all’altra della Manica. All’inizio l’idea era quella di tenere i pezzi di CUT Must Die! ben separati dal lavoro sul nuovo disco. A un certo punto però ci siamo resi conto che quello che stava venendo fuori da questo progetto in qualche modo rappresentava l’identità della band tanto quanto i brani fatti da noi tre da soli. Dopo più di vent’anni i CUT sono ormai veicolo di una storia che va ben oltre i membri passati, presenti e futuri della band. I CUT nel 2017 sono il risultato piuttosto imperfetto di tutti gli incontri che abbiamo fatto, delle persone che ci sono state vicino e che in qualche modo ci hanno segnato. Proprio quel tipo di persone che stavano coinvolgendo in un progetto CUT Must Die!. Nell’album che stavamo preparando e che avrebbe sancito vent’anni di storia del gruppo tutto questo ci stava eccome! Per questo abbiamo deciso di far confluire anche questi brani, o almeno quelli che realisticamente potevamo portare a termine entro la fase di registrazione del disco, nel corpo di Second Skin. E qui sono cominciati i nostri guai perché a questo punto quella modalità di lavoro perfettamente funzionale ed efficace che ti descrivevo sopra a questo punto è saltata completamente. Ne è valsa ampiamente la pena però, sia per l’esperienza che per il risultato finale che puoi ascoltare tra i solchi dell’album.

Inizialmente anche il brano con Mike Watt doveva fare parte di CUT Must Die! Siamo fan di Minutemen, fIREHOSE e ovviamente Iggy & The Stooges da sempre e quindi ci sembra di conoscere Mike da ben prima di averlo incontrato di persona: avevamo ascoltato i suoi dischi, eravamo andati ai suoi concerti e avevamo letto e ascoltato testimonianze sulla sua storia, la sua attitudine e sul suo ruolo nella scena underground americana. Inoltre nel corso degli ultimi 10/15 anni ci siamo imbattuti in Mike tantissime volte e abbiamo avuto la possibilità di approfondire la nostra conoscenza reciproca. Mike ha registrato l’ultimo disco del suo Sogno del Marinaio – il progetto che condivide con un altro ospite del nostro disco, Stefano Pilia – proprio al Vacuum Studio di Bruno Germano, accanto alla nostra sala prove. Poi ovviamente c’è stata la data insieme a Iggy & The Stooges nel 2012, un momento davvero importante per noi come puoi immaginare. L’umanità straordinaria di Mike è stata una presenza sempre più presente nel nostro mondo fino al punto che ci è sembrato naturale chiedergli di partecipare al nostro disco: lui ha accettato immediatamente, a ulteriore testimonianza della sua disponibilità e del suo approccio assolutamente spontaneo e aperto.

Tante canzoni che non danno tregua, che ci tengono sulla corda con chitarre rabbiose e l’incastro di basso e batteria, ma anche un gioiello come ‘Take It Back To The Start‘ che mi stupisce ogni volta per il suo groove accattivante, caldo e appiccicoso. Com’è nato questo brano?
Take It Back To The Start è già stato pubblicato sul profilo bandcamp dei CUT nel contesto del progetto CUT Must Die! circa tre anni fa: è l’unico brano di Second Skin che era già stato condiviso in precedenza. In questo caso l’ospite è Andrea Rovacchi, tastierista dei Julie’s Haircut, al piano elettrico, cori e percussioni. Andrea è da sempre uno dei nostri fonici di fiducia oltre che nostro amico e collaboratore. Quando ci siamo incontrati per lavorare sull’ipotetico pezzo da fare insieme però nessuno di noi aveva la più minima idea di cosa fare. L’unica vaga indicazione l’ha espressa proprio Andrea prima che cominciassimo a suonare per tirare fuori qualche spunto: “Voglio fare un pezzo pop con i CUT!”. L’aveva presa quasi come una sfida, visto che non siamo certo conosciuti per essere un gruppo incline al pop o alla melodia. Sicuramente il risultato è piuttosto “deviante” e scuro per essere un brano “pop”. Del resto era difficile aspettarsi niente di diverso da una band come la nostra. Diciamo che è venuto fuori qualcosa di più riflessivo rispetto al nostro solito sound. Tutta l’esperienza legata a Take It Back To The Start è assolutamente unica per quanto ci riguarda. Siamo entrati in studio a mani vuote e ne siamo usciti a fine giornata con un pezzo finito in tutte le sue parti. Anche il testo è stato scritto e cantato sul momento. Non c’era mai capitato di registrare la versione definitiva di un brano nel giorno stesso in cui l’abbiamo pensato e composto!

Adoro gli arrangiamenti dei fiati in ‘Shot Dead’, ‘Parasite’ e ‘Holy War’, danno quel tocco ancora più incisivo ai brani. Erano già in previsione fin da subito o sono stati aggiunti dopo averci pensato su?
Già per altri dischi pensavamo di utilizzare i fiati, ma fino ad ora ci eravamo limitati sperimentare con una tromba per un brano di Bare Bones che si chiama Hold Me Back. Anche per la title track di Annihilation Road avevamo carezzato l’idea di buttare dentro una sezione fiati, ma poi non c’era stato tempo. In un contesto musicale molto intenso e compatto come il nostro una sezione fiati può essere un’arma a doppio taglio. Quando le cose funzionano però secondo me si può realizzare un connubio potentissimo tra due nostri enormi amori musicali: il rock and roll sporco e “fast and loose” e il soul/r’n’b di marca Stax/Atlantic. Ci sono riusciti in pochi senza strafare: mi vengono in mente i Saints del secondo album con pezzi come Know Your Product, gli Stones della fase “imperiale” (68/73), i Cop Shoot Cop e i Rocket From the Crypt. Nel nostro piccolo speriamo di inserirci in questa tradizione. In realtà io avevo pensato ai fiati solo per Parasite. E’ stato Bruno Germano, sound engineer e produttore del disco presso il Vacuum studio di Bologna, a proporli anche per Shot Dead e Holy War: il lavoro di Bruno su questo disco è stato essenziale per quanto riguarda le scelte di ripresa, missaggio, produzione e arrangiamento. Bruno è presente anche in veste di musicista e coautore nella title track, che è stata sviluppata partendo da due suoi riff di chitarra. I fiati sono stati suonati da Paolo Raineri (Junkfood) e Francesco Bucci, meglio conosciuti come B.R.Ass e membri anche degli Ottone Pesante.

C’è qualcosa nell’album che, risentendolo a disco finito, vi ha davvero sorpreso?
Considerando il modo in cui è stato realizzato e la varietà di contributi e atmosfere che lo caratterizzano, ci ha molto sorpreso come Second Skin trasmetta comunque un senso di coesione interna e compattezza. Per certi versi è quasi monolitico, nonostante sia forse il nostro album più vario. Durante le fasi di realizzazione del disco ci sono stati molti momenti in cui abbiamo avuto la netta sensazione di avere in mano una serie di brani singoli scollegati l’uno con l’altro. Quando invece è venuto il momento di ascoltarli di fila per provare la scaletta definitiva, tutti i pezzi del puzzle sono andati al loro posto e ho pensato : “Habemus album!

Il concerto di presentazione dell’album è stato al Covo di Bologna. Immagino che legati a quel locale ci siano tanti ricordi, forse non ci potrebbe essere posto più adatto, no?
Il nucleo originario di quelli che da lì a poco sarebbero diventati i CUT si è ritrovato per la prima sessione di prove al Covo Club all’inizio del 1996. All’epoca Steno dei Nabat gestiva la sala prove situata dentro al locale: ci si entrava da una porticina a scomparsa, nascosta lungo il muro della pista da ballo. Noi provavamo il venerdì e non dimenticherò mai la sensazione di arrivare nel locale ancora vuoto, infilarsi in sala prove per poi uscirne a tarda sera dovendosi far largo tra la gente che ballava al ritmo delle hit indie dell’epoca. A causa delle ristrutturazione del Casalone (la struttura di quartiere che ospita il locale) le sale prove sono state spostate, ma noi siamo sempre rimasti legati al Covo. E’ di gran lunga il club in cui abbiamo suonato più volte. Abbiamo presentato lì tutti i nostri album. Io ho lavorato al Covo dal 2003 al 2009 e ancora adesso metto i dischi in una serata mensile dedicata a garage, punk rock, glam e power pop chiamata Dirt! E’ un locale che ha una storia unica in Italia, con un palco che trasmette delle sensazioni difficili da riscontrare altrove.

Anni fa il buon Nicke “Royale” Andersson degli Hellacopters disse: “il rock’n’roll è morto perchè non c’è niente in classifica che suoni come Chuck Berry al giorno d’oggi. Ma ci saranno sempre fantastiche band di rock’n’roll nell’underground“. Pensiero condivisibile?
Sì, è assolutamente condivisibile. Ora grazie al web possiamo potenzialmente ascoltare qualunque cosa al mondo, quindi è sempre più difficile avere a disposizione il tempo e l’attenzione per orientarsi in questo mare e per separare l’oro dai mattoni: se si ha voglia di cercare tuttavia si possono ancora trovare cose incredibili. Il sound di questa musica continuerà a sopravvivere questo è certo: speriamo ne sopravviva anche l’attitudine perché spesso ci si imbatte in band formalmente perfette alle quali però manca un po’ di sporcizia, cattiveria e soprattutto poesia. Il rock and roll è una cosa da animali feriti, ci vuole una certa vulnerabilità e una buona dose di sensibilità selvatica per non farlo diventare una pratica meccanica e noiosa. Purtroppo non è possibile imparare queste cose tramite un tutorial di Youtube o un decalogo di Wikihow.

Vorrei chiudere con un accenno alla copertina, che trovo magnifica ed inquietante. So chè è un quadro di Simone Fazio. Come mai l’avete scelto?
Dalla prima volta che abbiamo visto le opere di Simone Fazio ci è stato chiaro che avevamo a che fare con qualcuno che condivideva molte delle nostre ossessioni e passioni.
Scoprire che poi Simone, oltre che essere anche musicista, è un fan di gran parte delle nostre band preferite ha solo intensificato una connessione che si era già stabilita tra di noi. Simone ci aveva già concesso l’utilizzo di un particolare del suo Nel Buio, quando cercavamo un’immagine da associare alla release online di Take It Back To The Start.
Io non riuscivo a togliermi dalla mente l’opera intera però. E’ un immagine che, come si dice, esprime l’inesprimibile di questo album come nessun’altra.
Abbiamo cercato anche altre idee, ma continuavamo a essere richiamati da quell’opera: doveva essere la copertina dell’album.
Ci piaceva anche l’idea che una parte di esso fosse stata rivelata da Take It Back To The Start e che finalmente l’album mostrasse, se mi perdoni il pessimo gioco di parole, il quadro completo dal punto di vista musicale, emotivo e visuale.
Non voglio dire troppo perché c’è qualcosa di evocativo e potente che alberga in quel quadro:si tratta di qualcosa che coincide con il cuore nero del disco e non voglio che le mie parole ne diluiscano l’impatto. Certe suggestioni sono misteriose anche per me e in fin dei conti è meglio così.

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