Piccoli Bigfoot: ripartiamo da polenta e pancetta
Uno dei temi sempre in auge in ambito musicale riguarda le canzoni che raccontano della vita quotidiana e delle esperienze che accomunano tante persone, perché ci vuole un attimo a sconfinare nella ruffianeria e nel bieco calcolo, utilizzando freddamente immagini atte a far immedesimare l’ascoltatore in ciò che si sta raccontando, ma che in realtà hanno un taglio talmente generico che parlano di tutti senza davvero parlare di nessuno. Il secondo album di Piccoli Bigfoot, progetto in essere dal 2019 e nato dalle ceneri di diverse punk band bergamasche, tocca questo tipo di tematiche, ma, lo dico subito, supera brillantemente il “test di genuinità” e si pone come esempio virtuoso di come evocare in modo sano e sincero quei mattoncini che, messi uno sull’altro, hanno costruito e stanno ancora costruendo le personalità di molti di noi, si spera di tutti, in realtà.

Quanto affermo avviene, in prima battuta, grazie ai testi di Andrea Piccoli, capaci di trovare sempre le parole giuste per evocare efficacemente una serie di situazioni che, mentre le stavamo vivendo, ci sembravano probabilmente solo un modo per passare il tempo, ma che, in realtà, riviste oggi ci hanno resi ciò che siamo. Ascoltare passaggi come “Questa è la vita dentro al bar/Storia infinita di realtà/Amici sconnessi per il drink che va/Gente un po’ diversa ma riunita qua”, o “Rincorrere un pallone/Per vincere davvero”, o anche “Nulla facenti e selvaggi come noi/Non li trovi più neanche se vuoi” non può che dare all’ascoltatore la sensazione di avere a che fare con qualcuno che quelle cose le ha totalmente vissute ed è in grado di riportarle alla luce con vivido realismo. Sono poi fondamentali quei pochi e selezionati momenti di introspezione (“Vorrei solo capire ciò che vorrei”) e di fiera voglia di avere una propria personalità e non mischiarsi con la massa informe (“Mentre la radio trasmetteva le solite Hit/Noi sognavamo i nostri eroi”), proprio per dare una connotazione davvero realistica e distintiva alle rappresentazioni e far capire che si sta parlando di cose reali, ascrivibili a persone vere, che da quelle situazioni ci sono passate in carne e ossa.
Però, per fortuna, il discorso non si può circoscrivere solo all’aspetto meramente testuale, sennò staremmo parlando di un libro, o di una serie di racconti brevi. Invece, questa raccolta contiene canzoni e l’aspetto musicale è centrale per la riuscita della stessa. Lo è perché il timbro vocale del frontman è perfetto per il contesto, con quel perfetto equilibrio tra abrasività e scorrevolezza e quella capacità di avere un suono certamente lontano dalla pulizia formale ma, allo stesso tempo, di risultare sempre in controllo della situazione, sapendo quando spingere, quando rallentare, quando urlare a tutta gola, quando viaggiare a velocità di crociera. La versatilità timbrica e la cura del dettaglio magari non appaiono a primo acchito, presi come siamo dal vortice musicale di cui andrò a raccontare qui sotto e dalle storie raccontate nei testi, ma un’analisi più attenta non può che mettere in evidenza un lavoro, dal punto di vista vocale, fondamentale e importante per fungere da ponte tra l’aspetto dei testi che ho descritto e quello sonoro.
Come dicevo sopra, questa è un’opera musicale e la musica in quanto tale qui è perfetta nel suo essere sempre travolgente e dare i giusti colori a ciò che viene cantato e al modo in cui si canta. Forse potrebbe bastare copincollare la lunga lista dei credits per far capire quanto questo disco sia ricco dal punto di vista strumentale e degli arrangiamenti, ma, se lo facessi, ridurrei il tutto a un freddo elenco e non darei al lettore l’idea del grande calore che caratterizza queste canzoni. Dirò solo che i punti di questa lista sono ben 15, giusto per far capire che, lungo lo scorrere dei brani, si trova davvero di tutto. Ovviamente ci sono tante chitarre, diverse seconde voci, una sezione ritmica affollata e strumenti particolari come il resonator, il kazoo e persino una grattugia, ma l’aspetto più importante è la capacità di far suonare il tutto sempre e invariabilmente spontaneo e organico, dando la chiara sensazione di un ambiente fatto di persone a cui basta guardarsi per capirsi, o che comunque sanno come convivere anche in presenza di differenze. In definitiva, quella gente un po’ diversa ma riunita qua di cui si parla in uno dei passaggi testuali che ho evidenziato.
Perché, onestamente, dà molta più soddisfazione trovare un punto di convergenza con chi ha delle differenze rispetto a noi che andare d’accordo con chi ci somiglia, e la calibrata unione dei diversi aspetti che ho descritto fa sì che a chi ascolta questo disco venga trasmesso questo approccio alla vita. “Il tempo prende e il tempo dà ed i bei tempi son questi qua” si canta in uno dei momenti chiave del disco, e “questi qua” sono i tempi in cui, come dicevo, c’era molta più propensione a capirsi e trovare comunque qualcosa per cui valesse la pensa stare assieme. Si spera di poter ancora dire “sono” e non “erano”, ma questi sono discorsi che è meglio fare altrove e non su un sito di musica indipendente. Godiamoci questo disco intanto, dategli una possibilità e vedrete che vi farà star bene e vi darà non solo un po’ di ricordi nostalgici, ma anche, se non soprattutto, un bel po’ di motivazione in questi tempi difficili, sperando che non ci sia nulla che polenta e pancetta non possano curare.