Intervista: Polar Cat

Nel cuore di un universo sonoro intriso di suggestioni e atmosfere inafferrabili, Polar Cat dà vita a un progetto che fonde elettronica, minimalismo e sonorità cinematiche.
In questa intervista per indie-roccia.it, Fabio Generali ci racconta la genesi del suo pseudonimo, il lungo lavoro solitario dietro A Resistance e le influenze che hanno plasmato il disco.

IR: Il tuo pseudonimo evoca mistero e ambiguità. Come sei arrivato a scegliere il nome Polar Cat e cosa rappresenta per te?

PC: Lo pseudonimo è arrivato per una serie circostanze, inizialmente come gioco di parole sulle parole Polar Cat e il nome Paul Arquette (che hanno una pronuncia vagamente simile), venutomi in mente anni fa davvero per caso, ma che subito  ho deciso di appuntare per  utilizzarlo in qualche modo. Poi l’incontro fortuito con un gatto completamente bianco che vive nel mio quartiere nel centro storico di Fano e che vedo sporadicamente alle ore più insolite come una specie di apparizione, mi ha dato l’idea per un racconto che sto scrivendo, su cui si basano in parte il concept, i titoli e l’artwork dell’album, oltre ovviamente allo pseudonimo Polar Cat. In più il termine ‘polar’ richiama il concetto di freddo, quasi a bilanciare la componente emotiva molto presente nella mia musica.

IR: Hai lavorato per mesi in solitudine alla realizzazione dell’album. Qual è stata la parte più difficile di questo percorso e cosa, invece, ti ha dato più soddisfazione?

PC:  La parte più difficile paradossalmente è stata venire fuori da quell’isolamento, che in quel periodo (l’epoca del lockdown) era forzato, e con tutte la difficoltà, la drammaticità e l’assurdità del momento, mi ha comunque permesso di riflettere, comporre, registrare e lavorare totalmente su questo progetto senza alcuna distrazione, un’occasione difficilmente ripetibile. Quindi quando ho dovuto riadattarmi a una quotidianità più “normale”, in parte il lavoro ha subito un rallentamento, i dubbi sono aumentati, così come le possibili distrazioni e preoccupazioni. La soddisfazione è vedere crescere e realizzare un progetto musicale che nasce completamente da me, e perché no, ricevere anche qualche apprezzamento.

IR: Come è nata la collaborazione con Livio Magnini? In che modo il suo contributo ha influenzato il risultato finale del disco?

PC: Con Livio abbiamo degli amici in comune a Fano, la band ‘Denis the night and the panic party‘ che lui ha prodotto e seguito. Nel momento in cui dovevo finalizzare il lavoro mi sono reso conto che avevo bisogno di una mano per il mix e la produzione finale. Eleonora dei ‘Denis’ mi ha suggerito di parlare con  Livio e vedere se poteva essere interessato a seguire il lavoro, e così è stato. Oltre alle grandi qualità umane, il suo contributo è fondamentale per questo album, non solo per la maestria nel mix, ma per diverse idee a livello di produzione che hanno fatto la differenza.

IR: Il disco fonde ambient techno, minimalismo e sonorità cinematiche. Quali artisti o colonne sonore hanno maggiormente influenzato il tuo stile in A Resistance?

PC: Nel momento in cui componevo non ascoltavo molta musica, anche se apprezzavo molto il lavoro di Christian Loeffler, o artisti come Nils Frahm, Bonobo, Caribou, Kiasmos, che potrebbero avermi in parte influenzato, ma più spesso durante il lockdown mi trovavo ad ascoltare vecchi dischi punk rock o cose simili, musica molto diversa da quella presente nell’album. Sulla musica più classica o colonne sonore, le cose che possono avermi influenzato potrebbero essere in parte alcuni minimalisti fra quelli più “vecchi” (Glass, Reich, Ten Holt, Adams), ma anche un compositore come Max Richter, che ho imparato ad apprezzare guardando ‘The leftovers’, uno dei capolavori della serialità televisiva contemporanea, in cui la musica di Richter ha un ruolo fondamentale.
Nella musica per il cinema, oltre ai grandi della musica più tradizionale (Hermann, Williams, Shore, Morricone), potrei dire Desplat sempre per lo stile più “classico”, Vangelis per alcuni lavori, Junkie XL. Anche Hans Zimmer, pure se non amo tutto quanto ha prodotto, ha fatto grandi cose e ha dato un grande impulso per le colonne sonore di adesso, che molto spesso fondono elettronica e sinfonica. Non so quanto di tutto questo ha influito direttamente o si può sentire nel mio lavoro, in generale però mi piace dire che molte influenze che mi hanno accompagnato negli anni entrano in questo progetto, oltre alla elettronica, classica e soundtrack: dalla musica folk e i sea shanties, la musica antica, le bande di ottoni, e altro.
Magari tutto questo non è sempre in primo piano, ma in qualche modo c’è.

IR: L’album è ispirato a una favola dark natalizia ambientata in una Fano trasfigurata. Puoi raccontarci di più su questa storia e su come si intreccia con la tua musica?

PC: E’ difficile ora parlare della trama, perché è un work in progress che ha subito diverse modifiche e ripensamenti, anche se vorrei arrivarne a capo nei prossimi mesi. Ciò che posso dire è che vuole essere un racconto di natale di tipo “tradizonale”, nonostante l’atmosfera un po’ dark e la presenza di elementi fantastici e soprannaturali, credo che abbia un messaggio positivo alla fine, oltre a essere un omaggio alla mia città e ai suoi luoghi (per quanto trasfigurati), dove convivono storia antica, personaggi caratteristici, vita di mare e marinai. Tutto ciò si intreccia con l’album innanzitutto per i titoli e le atmosfere di alcuni brani (quando si leggono le parole Blackbird, Bragaia, The Cat, Lorelei, Paul Arquette, questi sono tutti riferimenti alla storia), ma posso dire che, dato che l’album è finito prima del libro, ora in un certo modo è più la musica che sta influenzando la storia, che non il contrario.

IR: Hai usato una varietà incredibile di strumenti, da synth analogici alla viola da gamba. C’è stato uno strumento in particolare che ha giocato un ruolo chiave nel dare forma all’album?

PC: Probabilmente la viola da gamba è uno di questi. Avevo scritto degli arrangiamenti per archi da inserire in alcuni brani, ma nel momento di sostituire i demo con gli archi veri, ho preferito optare per la viola da gamba, strumento che amo molto e che conosco bene avendo fatto spesso l’accompagnatore al clavicembalo quando studiavo al conservatorio. La mia amica e violista Elisabetta Del Ferro ha registrato tutte le parti con viole di diverso taglio. Trovo che rispetto al quartetto d’archi, insieme all’elettronica contribuisca a un’atmosfera più unica ed evocativa, che è quello che cercavo in questo album, e visto che ricorre spesso (6 tracce su 8 hanno un quartetto di viole da gamba), ha certamente un ruolo chiave per l’identità dell’album.

IR: Anche se il disco è strumentale, in due tracce hai utilizzato le voci come elementi sonori. Qual era il tuo obiettivo nel trattarle in questo modo?

PC: Ero semplicemente alla ricerca di tibri “strumentali” diversi con cui sperimentare, più che di una voce che cantasse un testo o delle melodie specifiche. Quindi con Eleonora, di cui ho parlato sopra, abbiamo registrato delle improvvisazioni vocali su alcuni brani, elementi che poi ho editato, sovrapposto ed effettato in vari modi. Più che avere un obiettivo preciso, nel caso delle voci è stato un lavoro di sperimentazione, e visto che il risultato mi piaceva, è stato aggiunto al lavoro finale.

IR: A Resistance invita chi lo ascolta a perdersi in un mondo sonoro unico e sfuggente. C’è un’emozione o un’immagine specifica che speri rimanga impressa nel pubblico dopo aver ascoltato il disco?

PC: Ciò che vorrei è che l’album richiamasse delle emozioni o delle immagini, ma non necessariamente specifiche, ognuno elabora a suo modo l’ascolto di un’opera musicale o artistica in generale. Mi piacerebbe che il lavoro trasmettesse e lasciasse qualcosa nell’ascoltatore, e magari anche il desiderio di risentirlo.

La seconda o la terza volta la sensazione potrebbe anche essere diversa, appunto ognuno ascolta ed elabora a suo modo. Io uso spesso, a volte anche troppo, il termine ‘evocativo’, ma ecco, se la musica evoca qualcosa per l’ascoltatore, un ricordo, un luogo, un libro, un senso di speranza, oppure malinconia e lontananza, ma può essere anche gioia o leggerezza, o un senso di mistero come tu dicevi all’inizio, e così via… per me direi che va bene così.

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