Intervista: Gasco

Nati nell’estate del 2021, i Gasco sono un trio psych-rock milanese che si diverte a mischiare chitarre riverberate, riff danzanti e un’anima che guarda tanto alla California quanto a sonorità più orientaleggianti. Li abbiamo raggiunti nella persona di Stefano “Steve” Guglielmi per scambiare qualche parola su musica, ispirazioni e passioni.

IR: Prima curiosità: da dove arriva il nome della band?
SG: Il nome della band nasce in un particolare momento della giornata, nel quale le persone comuni si elevano, prendono decisioni ponderate e consapevoli: l’aperitivo.
Arrivato in cima a un rifugio dopo un tracking impegnativo, scatta quel momento. Invio sulla chat di gruppo della band, la classica foto del bicchiere, versione “me lo sono guadagnato”.

Mauro, il nostro batterista, risponde dal mare con un gin tonic da manuale. Ma la vera protagonista della foto è lei: la bottiglietta di tonica, in bella vista, con su scritto “J. Gasco”. È bastata una emoticon, ripetuta infinite volte, l’illuminazione è arrivata insieme ai primi sorsi, quello era il nome. Suonava bene, aveva stile, e soprattutto… era già parte della nostra storia.

Paolo, il nostro bassista, ha poi saggiamente suggerito di omettere la “J”, giusto per non avere ripercussioni di alcun tipo.

Insomma, è stato il nostro battesimo con la scorza di limone.

IR: Riguardo al vostro nuovo EP : qual è il filo conduttore che lega i brani?

SG: La carica positiva. In quei venti minuti vogliamo far svagare le persone, far dimenticare i problemi, creare un nostro spazio condiviso con chi ci ascolta. È un momento per staccare, liberarsi, scuotersi e godersi l’attimo senza pensieri. Lo stesso spirito lo portiamo sul palco: l’obiettivo è far star bene, far divertire e far sentire tutti parte di qualcosa di positivo, da portarsi a casa anche al termine del concerto.

Il prossimo ottobre usciranno un paio di nuovi singoli che anticiperanno il nuovo EP. Pur mantenendo una vena più surf, la formula resterà la stessa, farsi trasportare.

IR:  All In Lotion” e I Said mostrano due lati diversi del vostro sound: come nascono queste differenze e quanto sono frutto di sperimentazione in studio o di scelte consapevoli a monte?

SG: Partiamo da I Said, questa canzone ha circa 15 anni. È stata scritta originariamente in stile Britpop e mai pubblicata — c’è forse in giro una demo su Myspace. Accantonata per parecchi anni, ha poi subito diverse trasformazioni, per poi atterrare nella terra dello psych garage made in California. Questo percorso l’ha portata a una nuova identità, più lisergica, ruvida al punto giusto, scanzonata, pensata per coinvolgere chi ascolta in un’esperienza viva: testa e mani a tempo per sentirsi parte di quel mondo.

All in Lotion, invece, è un tributo a una band si San Francisco, la demo originale si chiamava proprio con il loro nome. È una traccia semplice ma energica: tre accordi, ritmo sostenuto, un riff per il ponte e un altro riff che fa da ritornello con cinque parole che si incastrano una dopo l’altra. Il testo parla di una “pozione” obbligata, un consiglio da parte di una voce amica che ti fa capire che qualcosa non va, ma basta un sorso per cambiare completamente la visione.

IR: Nei vostri brani si percepiscono influenze orientaleggianti e richiami alla West Coast americana: quali ascolti vi hanno maggiormente ispirato?

SG: Inizio dalla terra di Albione, con una perfetta fusione di pop e rock’n’roll, i Beatles: è sempre una questione di quale album ti entra più nel cuore. Personalmente, ho un legame particolare con Tomorrow Never Knows anche se sono follemente innamorato del giro di basso di Lucy In The Sky with Diamonds. I dischi usarati dalla puntina sono Revolver, Sgt. Pepper’s Lonely Hearts Club Band e Rubber Soul. È da lì che nasce, ad esempio, l’uso del sitar come dettaglio in I Said.

A questo punto attraversiamo idealmente l’oceano, arrivando in californiana degli anni 60 con i Love, The 13th Floor Elevators, The Byrds, Seeds e che da 20 anni vive una nuova linfa grazie a band come Night Beats, Ty Segall, Thee Oh Sees, The Black Angels, Allah-Las, Growlers e L.A. Witch, Fuzz, senza tralasciare gli anni 90 con i Dandy Warhols e i Brian Jonestown Massacre.

Per chi volesse, tempo fa abbiamo raccolto il meglio di questo sound in una questa playlist.

IR: Avete definito il vostro progetto come una forma di “divulgazione e istinto di sopravvivenza”: potete raccontarci meglio cosa significa per voi questa definizione?

SG: E’ un’esigenza, un modo di restare connessi a ciò che ci fa sentire davvero noi stessi.

Nel nostro piccolo, prendiamo ispirazione da quella necessità di J.Gasco nel creare aggregazione, da quel bisogno quasi primordiale di essere fautori di qualcosa che arricchisca la nostra vita. Senza, probabilmente, ci sentiremmo meno completi. È divulgazione, sì, ma è soprattutto sopravvivenza emotiva.

IR: Il Progetto è nato nel 2021, come avete vissuto i primi passi della band in un periodo ancora segnato dalla pandemia? Ha influenzato in qualche modo il vostro approccio creativo?

SG: Assolutamente sì, ci ha permesso di imparare a lavorare “da remoto”, studiando cosa uno aveva fatto per l’altro. Da sempre sono abituato a scrivere un intero brano su GarageBand e poi condividere il risultato con i ragazzi. Il lavoro è quasi completo, l’identità è già forte, bisogna solo limare i dettagli e Mauro e Paolo hanno una gran sensibilità in questo. Per farlo è necessario studiare ogni traccia. Questo processo ci ha resi molto più attenti e analitici nella fase creativa.

Allo stesso tempo, lavorare così ci ha dato anche una maggiore consapevolezza, un benchmark, del potenziale del brano già nelle fasi iniziali. Ascoltare la bozza quasi finita ci mette subito davanti a quello che potrebbe essere il risultato finale, e questo ci motiva ancora di più a farlo crescere e arrivare a compimento nel modo migliore possibile.

IR: A Milano e in Lombardia c’è una scena musicale piuttosto vivace: quanto sentite di farne parte e come vi rapportate con le altre realtà locali?

SG: Sì, ne facciamo parte. Prima di stimare una band, si stima soprattutto le persone e il modo in cui si rapportano con gli altri. Il fulcro è la relazione che si crea e si evolve nel tempo: la stima per il progetto musicale arriva dopo, quasi come una naturale conseguenza di quelle connessioni umane.

Il rapporto con le altre realtà locali è fatto di rispetto e collaborazione, perché sappiamo che è proprio da questi scambi che nascono le occasioni più interessanti e autentiche.

IR: Per chi vi ascolta, soprattutto live che tipo di “viaggio” volete far fare al vostro pubblico?

SG: Il viaggio migliore possibile. Dal vivo vogliamo trasportare il pubblico in un’esperienza fatta di riff, powerchord riverberati, tamburelli che si intrecciano ai timpani in un’onda sonora che stringe tutti in un abbraccio collettivo.

Ci piacerebbe che ogni concerto fosse un momento sospeso, in cui il tempo si dilata e le persone si sentano parte di qualcosa di condiviso e autentico. Un luogo emotivo dove è possibile lasciarsi andare, riconoscersi negli sguardi degli altri, magari anche in un gesto semplice, spontaneo — come un ballo scordinato, un abbraccio, un limone a sorpresa tra sconosciuti.

Alla fine, è un viaggio che parte dalla pancia, passa dal cuore e, se tutto va bene, arriva dritto all’anima.

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