Interview: Smile

Fin dai primi singoli pubblicati l’anno scorso, i torinesi Smile hanno proposto musica che riteniamo molto coinvolgente e valida. Il disco, uscito lo scorso 26 marzo, non ha tradito le attese, e siamo stati, quindi, molto contenti dell’opportunità di mandare alcune domande alla band.

The Name Of This Band Is Smile esce per Subjangle e Dotto ed è acquistabile in CD e in digitale su Bandcamp

Voce, chitarra, basso e batteria, musica che non si fa problemi a mostrare le proprie fonti di ispirazione e testi che parlano di disagio e alienazione. In un tempo ormai abbastanza lontano sarebbe stata la descrizione di un manipolo di teenager vogliosi di sfogarsi, ma oggi rappresenta il progetto di quattro veterani. Ci pensate mai a questa cosa, a quanto è cambiato il modo di approcciarsi al fare musica in base all’età?

È fondamentale. I tempi sono cambiati e siamo cambiati anche noi. Per esempio, siamo molto più “riottosi” adesso di quando avevamo vent’anni: parliamo chiaro nei testi, tiriamo dritti per la nostra strada e usiamo la musica come veicolo per sfogare le nostre ansie e le nostre tensioni. Insomma, i motivi che ci portano a suonare sono gli stessi di sempre. L’età è solo un modo per affrontare in modo diverso i temi di sempre. Creare musica in un certo mondo – in saletta, tutti insieme, chitarra, basso, batteria – resterà sempre il modo più immediato per sfogare tutta l’oppressione che viviamo giorno dopo giorno.

Una cosa che però fa capire che siete nati negli anni 80 è legata proprio a come descrivete i vostri testi, parlando di “burocrazia, bollette da pagare e precarietà”, problemi che normalmente si affrontano da un certo punto della vita in poi. Questa cosa di non essere troppo giovanilisti nei testi l’avete voluta o è semplicemente venuta fuori così?

Non ci siamo fatti troppi programmi. Abbiamo seguito l’evolversi delle cose. È venuta fuori naturalmente e ci siamo accorti che in fondo ci piace provare a parlare di tematiche “adulte”. In fondo non sarebbe stato credibile che una band nata e cresciuta nella Torino depressa della fine degli anni Dieci parlasse di tematiche più astratte e giovainiliste!

Dal track by track contenuto nel comunicato stampa, si capisce che la scrittura dei brani è uno sforzo collettivo, e che chiunque di voi può tirare fuori l’idea giusta. Per chi non avesse voglia di leggere i singoli making of delle canzoni, come descrivereste più in generale il vostro processo compositivo?

Quando siamo in forma basta che uno di noi inizi a suonare qualcosa e di solito riusciamo a tirare fuori una canzone. Di solito partiamo da una frase di chitarra per poi costruirci sopra la struttura. Poi, una volta trovata la quadra, musicalmente lavoriamo per sottrazione (ci diciamo sempre «proviamo a suonare con meno note») e solo dopo arriva il testo. Le parole si adattano alla musica e ci cerca sempre di restare all’essenziale.

Presumo che nemmeno per un secondo vi siate posti il problema se cantare in inglese o in italiano, ma magari invece mi sorprenderete e mi direte che sì, in effetti un minimo di discussione in merito c’è stata…

Mai.

Ascoltando il disco, mi piace perdermi nelle linee di chitarra e afferrare il modo in cui si incrociano e, in generale, interagiscono con le melodie vocali. È l’essenza del jangle pop e deve essere maledettamente difficile dover trovare ogni volta degli arpeggi che si accompagnino alla voce ma allo stesso tempo abbiano un andamento proprio. Non vi siete mai trovati di fronte a un punto cieco con la tentazione di dire “ma sì dai, per una volta spariamo tre power chord e vaffanculo”?

I nostri pezzi di base sono tutti “tre accordi e pedalare”. Poi ovviamente proviamo a fare qualcosa più in linea con il nostro sound e il nostro stile, ad esempio provando a deostruire gli accordi, risolvere con gli arpeggi che si legano l’uno con l’altro e così via. Nel disco, a dirla tutta, un paio di power-chords mascherati ci sono ma non vi diremo mai dove sono!

Otto canzoni che durano, in media, tre minuti l’una: sono le uniche che avete ritenuto davvero degne di finire nel disco, o in realtà ne avete altre che vi piacciono allo stesso modo ma avete scelto la brevità come parte del vostro manifesto artistico?

Il disco è uscito com’è stato pensato e non abbiamo scartato nulla. Anzi, abbiamo resistito alla tentazione di aggiungere materiale per “fare numero” perché non avrebbe avuto niente a che vedere con questa che è una prima fotografia della nostra vita come band. Anzi, abbiamo parecchio materiale nuovo che non vediamo l’ora di metterci a ritoccare quando sarà possibile tornare a suonare insieme con un minimo di programmazione. Anche tra le varie zone rosse non abbiamo smesso di tirare fuori idee nuove.

Quando si potrà ricominciare, cosa ci possiamo aspettare dai vostri live? E se dovesse esserci la possibilità solo di concerti con gli spettatori seduti e distanziati, avete anche pensato a un adattamento acustico o semiacustico, oppure o elettrico e sudore o niente?

Ci viene da dire elettrico e sudore o niente. Abbiamo provato a immaginare le nostre canzoni in acustico ma non funzionano. Nel disco non c’è nemmeno una chitarra acustica registrata, nemmeno sullo sfondo, nemmeno nei provini. Per questo speriamo che si torni presto a una specie di normalità, perché dai nostri live potrete aspettarvi una bella scarica di adrenalina. Concerti brucianti e velocissimi. Tutto il resto sarebbe accontentarsi.

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