Interview – Evelina

Fuori su tutte le piattaforme digitali da venerdì 7 giugno 2024 “L’Assedio“, concept album di debutto di Evelina, artista indipendente e queer che ha scelto l’anonimato per andare oltre ogni apparenza e proteggere la musica, le visioni e le parole da pregiudizi, sovradeterminazioni e semplificazioni.
 
Produttore, arrangiatore e parte integrante del progetto è MuČe Čengić, chitarrista bosniaco tra i fondatori dei Zabranjeno Pušenje, gruppo rock di culto nei Paesi della ex Jugoslavia – oltre che produttore discografico e ingegnere del suono, trasferitosi in Italia da Sarajevo alla metà degli anni ’90 dopo il conflitto in Bosnia ed Erzegovina.
 
“L’Assedio” è una sorta di kintsugi giapponese. Frammenti dispersi, uno schianto previsto quanto improvviso; e poi ricomposti pazientemente – in un tempo lento, dilatato, a tratti immobile e silenzioso – a restituire una forma perduta, forse non più capiente ma con le ferite impreziosite dall’oro. Un volo inceppato sul tempo, sospeso senza rimedio tra futuro e passato, sequestrato nel presente.

Abbiamo provato a saperne di più intervistando Evelina, facendoci raccontare qualcosa sulla sua visione artistica, sul suo metodo di lavoro e sui suoi gusti musicali:

Cosa contraddistingue la musica di Evelina?

La ricerca di una autenticità profonda, radicale. Che però per me non può essere soltanto un’intenzione o un auspicio astratto e a priori. Quasi tutti gli artisti probabilmente cercano in qualche modo l’autenticità, ma spesso questo intento si vanifica nel percorso creativo, che è sempre insidioso, e può venire alterato da vanità, dalla ricerca di popolarità come fine ultimo o altro. Per Evelina l’autenticità è prima di tutto un metodo. La sottrazione dell’ego e delle sue sterili nevrosi, come il bisogno di riconoscimento e di conferme, è la necessaria premessa di questo metodo, come una sorta di cambiale da staccare a scatola chiusa prima di entrare nella dura ed esaltante essenza del lavoro creativo. Da questo punto di vista, il lavoro fatto sul disco ha certamente un lato terapeutico e la collaborazione con Muce, fondamentale lievito di questo processo, ha assunto caratteristiche maieutiche, come un vero e proprio parto che ha dato vita a un disco che mi rappresenta nella mia essenza, fino a diventarne la mia unica faccia. Dare alla luce se stessi dovrebbe essere l’obiettivo ultimo di ogni essere umano, farlo in forma musicale è una delle esperienze più dolorose ed esaltanti che esistano.

Come hai portato avanti la lavorazione del tuo disco “L’Assedio”?

L’Assedio è il risultato di un percorso creativo lento, artigianale, complesso, con una progressione spazio-temporale non lineare ma spirale, frattale, caratterizzata da fughe creative in avanti e ritorni su forme definite e poi trasformate ancora dopo un’intuizione, uno schianto, una corrispondenza di sensi più o meno amorosi, una perdita, un isolamento pandemico. Il risultato di tutto questo è un concept album a posteriori, nel senso che non è stato progettato a tavolino per esserlo ma che lo è diventato lungo la strada. Nel mezzo della sua gestazione mi sono resa conto che tutti i pezzi incarnavano in modo diverso lo stesso vitale bisogno, quello di esprimere sentimenti al loro grado zero, come un atto di rivolta e di sottrazione da questo assedio personale e collettivo che avviene sopra e dentro le nostre teste. Un romanzo di formazione, postuma, in musica. Ogni nota e ogni parola del disco è l’esito della volontà ostinata di ridare misura e scala al piccolo dolore di noi fortunati prigionieri nel lato comodo della Fortezza e a quello smisurato altrui, degli esclusi, a cui non è concesso il privilegio di dare alla luce loro stessi. I dannati della terra che cercano disperatamente di accedere alle nostre banalissime nevrosi (ingrato lusso), ma a cui imponiamo infinite volte l’obbligo antropologico di lottare per sopravvivere.    

Hai affermato che l’amore e la rivoluzione non hanno bisogno di un business plan. Cosa significa avviare un progetto musicale in un mondo che è sempre più basato sulle strategie?

In generale non saprei risponderti, ma posso parlarti di cosa vuol dire impegnarsi per l’emersione del mio disco nello scenario musicale contemporaneo. Sicuramente mi trovo davanti a molti paradossi, a cominciare dal fatto di aver scelto l’anonimato per non diventare un altro personaggio di intrattenimento e per lasciare spazio unicamente alla musica ma che mi ritrovi a rispondere sempre a domande proprio sull’anonimato, come se percepissi il bisogno degli altri di raccontarmi proprio come quel personaggio che ho scelto di non essere. Sembra che l’industria musicale non conceda nessuna altra strada se non quella di uno storytelling – pronuncio questa parola con un certo disprezzo – dello stesso superfluo, ennesimo inutile dito senza nemmeno voler sapere se c’è ancora una luna possibile o se si è stufata anche lei. Con questo non intendo assolutamente dire che nel mio disco ci sia la luna, ma soltanto che puntando lo sguardo sempre nella stessa direzione il rischio è che la vita e l’arte ti passino davanti senza che nemmeno te ne accorga.Io non credo che come dici tu “il mondo sia sempre più basato sulle strategie”. Non è il mondo che le sceglie, ma sono le persone. Non sono obbligatorie, né inevitabili, ma tanti, troppi, cadono nella tentazione di semplificare con questi espedienti. Anche tu forse inconsapevolmente hai scelto di adottare delle strategie facendomi  questa domanda.  Sarebbe forse più autentico se mi chiedessi: ma devi essere proprio fuori di testa a parlare ancora di amore e di rivoluzione al tempo dei talent show, dei social media e della pura apparenza, ma come ti viene in mente? Secondo me lo pensi. Ammettilo.

Segui la scena emergente del nostro paese? Ci sono dei progetti che senti affini al tuo?

Ascolto qualsiasi cosa, sono davvero onnivora, sempre pronta ad allargare gli orizzonti e a imparare. Per questo sono sempre più delusa della scena emergente italiana. È omologata e (a forza di “strategie” e “religioni”, come dicevo poc’anzi), molto poco coraggiosa. Credo che nei quasi cinque secoli che ci separano da Claudio Monteverdi la forma-canzone italiana non sia mai stata così sminuita, resa miope e innocua. Fondamentale tradire le radici, ma mai umiliarle. È il capitalismo bellezza, mi si dirà, ma non riuscirò mai ad accettare che “T.I.N.A.”  – il tragico dogma/anatema thatcheriano – sterilizzi una volta per tutte anche le arti e chi esiste e resiste per non ridurle a mero ed effimero prodotto di consumo. Per questo rivendico più che mai l’attualità e la necessità dell’indipendenza, non come pelosa anticamera del mainstream, ma come condizione esistenziale, come scelta culturale e politica, come una ricerca infinita che tracima da corpi finiti, E tutto questo, credimi, è tutt’altro che il sinonimo di nicchia e di sfiga, semplicemente non è l’ennesima scorciatoia. La rosa della produzione recente si assottiglia drasticamente attraversando questo filtro. E posso dirti che apprezzo molto il lavoro di Daniela Pes, Lucio Corsi, Andrea Laslo De Simone e sono contenta che si stiano prendendo il loro meritato spazio. Scusa, non potevo evitare la premessa.

C’è un artista con cui sogni di poter avviare una collaborazione?

Ce ne sono due, che incarnano profondamente, ognuno col suo mondo, il senso di tutto quello che ho provato a dire sin qui. Due alieni, due rari messaggi nella bottiglia, due ostinati poeti che resteranno: Truppi e Cosmo.

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