Interview: C+C=Maxigross
Lo scorso 28 marzo è uscito il nuovo album dei C+C=Maxigross, intitolato Nuova Era Oscura Vol. 1, per Dischi Sotterranei. Ne abbiamo approfittato per una piacevolissima telefonata con Tobia Poltronieri, durante la quale abbiamo toccato diverse tematiche legate al disco e, in seguito, abbiamo allargato il campo includendo la situazione attuale del mercato musicale.
Avete dei musicisti nuovi in gruppo, e direi che si sente il loro contributo, soprattutto nella parte ritmica che mi sembra diversa rispetto a prima, e anche nei cori della cantante. Voi sapevate di volere determinate caratteristiche e avete fatto una sorta di reclutamento, oppure loro sono entrati e vi site mossi in base alle loro caratteristiche?
Assolutamente la seconda, così com’è sempre stato per questo progetto. Tutte le persone che abbiamo incrociato nel nostro percorso hanno dato il proprio apporto e da lì il progetto si è modificato. Non è mai successo che qualcuno sia entrato perché cercavamo una cosa specifica.
La cura per il ritmo nel vostro progetto si nota ormai da diversi dischi a questa parte, ma la differenza, in questo nuovo album, è che la parte ritmica è molto più suonata e naturale, mentre prima c’erano anche dei ritmi digitali, non so se sei d’accordo con questa mia impressione.
Hai assolutamente colto qualcosa che effettivamente è molto presente. I due dischi prima di questo li abbiamo fatti con Duck Chagall come produttore, che poi è Francesco Ambrosini, co-fondatore del progetto che però negli anni si è specializzato come produttore. Uno dei suoi tratti caratteristici è proprio l’utilizzo di drum machine, sonorità elettroniche, synth, mentre in questo disco nuovo, a parte in Adattamento dove è partito tutto da dei sample, i ritmi sono basati sulla batteria di Sirio Bernardi, che suona ormai con noi da quasi tre anni ma è la prima volta che registra un disco con noi. Certamente è un disco più suonato e meno elettronico.

Un’altra cosa che ho notato, e su cui ti chiedo di dirmi se sei d’accordo, è che molte canzoni sono, passami il termine, motivazionali, nel senso che cercano di dare un po’ di fiducia in sé stessi a chi ascolta.
Ammetto che non ci avevo pensato, però, a pensarci bene, il disco precedente è nato dopo la morte di Miles (Cooper Seaton) e, inevitabilmente, questo evento ha condizionato molte delle canzoni di quell’album. Invece, in questo disco ci siamo accorti che c’è una tematica che riguarda l’elaborazione di questo momento preciso, sia storico che personale, che poi convivono nella vita di tutti, non solo delle nostre. Sono uscite queste canzoni che non fanno riferimento a una vicenda specifica, e parlavano di questo momento in via più generale. Da lì a vederla come hai detto tu, se è così mi fa piacere. Del resto lo si dice fin dall’antichità che male e bene, oscurità e luce convivono, se no sarebbe tutto o troppo semplice o troppo difficile.
Secondo me, una canzone come Festa (per chi parte e per chi resta) messa subito all’inizio, già dal titolo, ma anche dal contenuto, è una sorta di manifesto di tutto il disco. Trovo anche che sia comune ai vostri dischi l’attenzione nel mettere le canzoni giuste nel momento giusto e immagino che ci lavoriate tanto.
Ovviamente è un aspetto a cui pensiamo, non facciamo le cose in modo casuale, però devo anche dire che, così come ti ho detto per la scelta dei musicisti, ci affidiamo spesso all’istinto. Non ci sono grandi strategie, ma agiamo molto col cuore e, parlando dell’esempio che fai, non ricordo perché abbiamo messo quella canzone all’inizio. Comunque è un brano che parla di partire e restare su tanti livelli, nel senso che può essere difficile lasciar andare qualcuno anche se è il momento giusto, e questa idea ricorre in molte altre canzoni.
Ho letto che per, la prima volta, tu e Niccolò (Cruciani) siete i produttori artistici. Tra l’altro, se non sbaglio, siete gli unici due che ci sono ininterrottamente fin dall’inizio.
Sì, è così, e anche qui è successo tutto in modo molto graduale. In realtà, fin dall’inizio, la produzione è stata raramente solo esterna, è avvenuto solo con Miles e, in precedenza, con Marco Fasolo. Per il resto, ci sono state varie fasi, ad esempio, come ho detto, lo stesso Duck Chagall era comunque un C+C e intanto che lui lavorava come produttore sui nostri dischi, io e Cru abbiamo iniziato a occuparci di produzione, lavorando su dischi di altre band che sono passate dal nostro Studio Tega a Verona, e anche sui nostri rispettivi dischi solisti. Era, quindi, arrivato il momento di essere i produttori anche su un disco della nostra band.
Scrivete canzoni da un sacco di tempo. Come cambia l’esperienza dal farlo le prime volte a ora che ne avrete scritte centinaia?
È diverso perché siamo diversi, ci facciamo più domande e viene meno un po’ della naturalezza che c’era alle origini, ed è giusto così perché è il bello di maturare e cambiare. Siamo più vecchi ma vogliamo comunque avere un elemento di naturalezza ed è difficile, perché in realtà noi non siamo cantautori che devono raccontare storie – e lo so che sto semplificando perché un cantautore non fa solo questo – e il nostro modo di scrivere canzoni è accomunabile a gruppi come i Can, che stavo ascoltando poco fa e sono uno dei nostri gruppi preferiti. Certamente loro sono autori di canzoni, però nessuno definirebbe i Can come dei songwriters. Formalmente sono canzoni, hanno testi, melodie, ritornelli, però difficilmente sentirai qualcuno dire “hai sentito che canzone quella lì”. Sono più delle esperienze sonore, in cui si uniscono voci, parole, musica. Noi abbiamo avuto periodi in cui ci concentravamo più sulla musica, altri sulle parole, magari non abbiamo mai raccontato storie specifiche, a parte per il disco precedente Cosmic Res, nel quale alcuni brani erano autobiografici e parlavano del nostro rapporto con la morte di Miles. Adesso penso che siamo tornati in una dimensione più onirica, se vogliamo.
Ci sono canzoni più tue e altre più di Cru o sono frutto di un lavoro di squadra più equilibrato?
Nascono tutte individualmente, poi si elaborano assieme, che è la cosa più bella del lavorare in gruppo. Infatti, per valorizzare questa cosa, attribuiamo i credits alla maniera di Lennon/McCartney, e non ci vogliamo certo paragonare a loro, ma semplicemente preferiamo dare priorità alla creazione collettiva, e per questo non diciamo mai che questa canzone l’ha scritta questo e l’altra l’ha scritta quell’altro, perché per noi non è importante. Può anche capitare di cantare canzoni che ha scritto un altro, non è successo in questo disco ma in passato sì, e non è mai stato un problema.
Qualche ora prima di te ho intervistato Miki Berenyi, nota soprattutto per i suoi anni con i Lush, che ora sta tornando con un disco nuovo in trio. Parlavamo della differenza tra lo scegliere un singolo negli anni Novanta e ora, e lei ora dice che semplicemente lo fa fare all’etichetta perché tanto sa benissimo che non ha alcuna importanza. Tu però non penso che lo faccia fare a qualcun altro, quindi da cosa è guidata la scelta delle canzoni che anticipano il disco?
Concordo che il panorama è cambiato in modo impressionante, già da quando abbiamo iniziato noi a oggi, figurati dai tempi dei Lush. Poi il nostro rapporto con Dischi Sotterranei è molto diretto, non stiamo parlando di major, loro sono molto in gamba e fanno tante cose bene, ma comunque stiamo parlando di una certa dimensione. Noi vediamo la scelta come un modo di presentare il disco, di dare delle suggestioni a chi ci ascolterà. In questo caso abbiamo scelto i due brani più in antitesi: Adattamento è il più oscuro e ossessivo, quasi inquietante, ed è una cosa che non abbiamo mai fatto particolarmente, quindi ci piaceva sviluppare quella dimensione, mentre Ultima Canzone riporta tutto su un altro piano. Sono quasi opposti come brani, quindi abbiamo voluto dare queste due prime suggestioni e magari qualcuno si chiederà cosa ci sia di altro.
Dal vivo come vi presentate? Siete tutti quelli che hanno suonato sul disco?
Esattamente, saremo in sestetto, siamo molto contenti perché è sempre bello ed era da un po’ che non succedeva. Noi cerchiamo sempre di tenere separati il lavoro in studio di registrazione e quello sul palco, perché sul palco puoi sviluppare un aspetto fisico e di improvvisazione che in studio non puoi sviluppare. Per noi sono due cose ugualmente belle ma estremamente diverse. Chi ci ha visti dal vivo ha sempre trovato cose diverse dai dischi e sarà così anche stavolta.

Anni fa avevate fatto una scelta discografica ben precisa: mettere il disco solo su Bandcamp e farlo arrivare solo molto dopo su Spotify. Io avevo apprezzato molto la scelta, fatta anche da altri nomi italiani e che apprezzo, ma ora, a mente fredda, tu come la vedi se ci pensi? E come vedi tutta la situazione?
È bello che tu ci abbia pensato e che segua questo aspetto, invece la maggior parte delle persone non lo fa, e sto parlando anche di musicisti, che per me è la cosa più incredibile. Mi sembra assurdo vedere musicisti che non pensano a questo aspetto o che sono molto passivi. Io ci penso tanto, me la vivo anche male, già stare sui social è un compromesso, perché sappiamo a chi appartengono e cosa generano. Ma Spotify è il male assoluto per i musicisti e non lo dico solo io, l’ultimo nome di spicco ad e affermato è Bjork, ma l’hanno detto anche tanti altri tra coloro che hanno il nome per poter fare la differenza. Il discorso è complesso, ma se vai all’origine è semplice. L’hanno detto bene i Deerhof, affermando che Spotify non è una piattaforma per pubblicare musica, ma è semplicemente un’azienda, e il suo business è la musica come potrebbe esserlo qualunque altra cosa. Non c’è altro fine se non il profitto. Basta anche solo leggere le dichiarazioni di Daniei Ek.
Io ricordo quando ha detto che ormai non ha più senso parlare di canzoni ma che esse vanno viste come contenuti, Mamma mia…
E non è neanche la peggiore che ha detto. Poi era anche ospite alla festa di insediamento di Trump, gli anni scorsi erano usciti documenti ufficiali che dimostrano quanto lui investa in armi, insomma, in ogni aspetto è sempre peggio. Tornando a noi, l’esperienza fu molto bella e liberatoria, ma abbiamo anche capito che se lo fanno i C+C con quelle 150 persone che hanno speso quei pochi soldi a cui l’avevamo messo in vendita, certo mandi un messaggio ma esso rimane attorno alla nostra piccola bolla. Dovrebbero farlo gli artisti che hanno molta più rilevanza, ma ormai mettersi contro Spotify è come mettersi contro a Amazon, cioè è un’impresa. Noi il nostro abbiamo provato a farlo, ma portarlo avanti avrebbe comportato così tanto lavoro che sarebbe stata più la fatica che il risultato.
Del resto, come afferma Massimiliano Raffa nel suo studio intitolato Poptimism e che sto leggendo, il fatto che chiunque possa ascoltare qualunque cosa sembra uno scenario democratico, ma in realtà chi ha più risorse per il marketing diventa ancora più dominante di prima.
Giustamente lui lo capisce anche perché è un musicista. Per me parlarne e sensibilizzare è il minimo, perché il problema esiste e colpisce soprattutto i musicisti. Io non mi stupisco se un ascoltatore non sente il problema, ma che un musicista sia orgoglioso di finire in copertina di una playlist di Spotify è una presa in giro, è come dire “sono orgoglioso di far parte di una cosa che è un problema per me stesso”. È una dissociazione.
Come quelli che mettono fuori a fine anno il wrap in cui si dice che li hanno ascoltati tot ascoltatori da tot Paesi.
Appunto. Noi ci siamo finiti su qualcuna di quelle playlist, ma lo sai come funziona: è una causalità, ti pompano i numeri di qualche brano a caso, perché non è che quel brano fa certi numeri perché è più bello o più amato, ma solo perché è finito in una di quelle playlist. Non gli si può dare un valore.
Io sono un grande fan degli Indelicates, e Simon di recente ha scritto che “i nomi dei suoi top fan non li deve andare a vedere su Spotify, perché sono scritti sulla ricevuta che lui ha dato loro quando lo hanno pagato”.
È una cosa bellissima e dovrebbe essere un messaggio semplice, ma purtroppo non passa.