L’Officina Della Camomilla – Palazzina Liberty

GENERE: psichedelia

PROTAGONISTI: Francesco De Leo.

SEGNI PARTICOLARI: la lineup de L’Officina Della Camomilla è, da sempre, in continua evoluzione, ma per questo terzo lavoro sulla lunga distanza, Francesco De Leo ha fatto tutto da solo e ha poi composto nuovamente una band per i live.

INGREDIENTI: la svolta rispetto al passato è radicale: dimenticatevi l’indie-pop di stampo britannico e la parte vocale verbosa ai limiti dell’invadenza. Qui viene dato ampio spazio al suono degli strumenti, per sfruttarne il potere evocativo, mentre la voce si limita al minimo indispensabile e non viene mai utilizzata in modo naturale ma passa sempre attraverso filtri. Le melodie sono decisamente meno immediate e il suono ha come costante un carattere psichedelico ma per tutto il resto il tasso di varietà tra i diversi brani è molto alto: ci sono le chitarre elettriche, quelle acustiche, l’elettronica aggressiva, quella più d’atmosfera, percussioni, fiati, strumenti esotici. Anche come durata delle canzoni e come struttura compositiva delle stesse c’è di tutto: si passa da stacchi strumentali di trenta secondi a brani di sei – sette minuti. Si rivedono le stesse caratteristiche del passato in Soutine Twist e, parzialmente, in Mio Fior Pericoloso, per il resto la voglia di fare qualcosa di radicalmente diverso è evidente.

DENSITÀ DI QUALITÀ: la voglia da parte di un artista di uscire dalla propria comfort zone e proporre un lavoro nel quale non si ha paura di rischiare va indubbiamente vista con favore. Purtroppo, però, qui l’impressione è che De Leo abbia fatto il passo più lungo della gamba. Anche dopo ripetuti ascolti, infatti, quasi tutti i brani suonano tanto ambiziosi quanto vuoti, esercizi di stile fini a se stessi, ma sarebbe meglio dire esercizi di vanità. Il quasi è dovuto ai citati punti di contatto con il passato e a una Penelope ben riuscita, perché dietro la voglia di stupire con effetti speciali si sente che c’è un’idea di canzone; tutto il resto suona quasi sempre irritante proprio perché non si nota alcuna logica nell’aver tirato fuori questo amplissimo ventaglio di soluzioni sonore. Esse non si appoggiano a niente e sembra quasi che all’autore la cosa non importi neppure, l’importante è far drizzare l’orecchio con dei suoni che sappiano colpire, ma questo disco è la concretizzazione della metafora del gigante dai piedi d’argilla. De Leo ha sempre avuto nella propria proposta musicale un elemento che spiccava sugli altri: in passato era il suo modo di cantare in unione allo stile nello scrivere i testi, ma almeno lì c’era una base fatta da un sognwriting interessante e, in alcuni casi, ispirato. Col tempo, e con l’ingresso nella band di musicisti esperti, si era anche riusciti a veicolare l’esuberanza del leader in una struttura che la valorizzava senza farla andare fuori giri, ma ora che si è trovato da solo, egli pare essere ricascato in questa voglia di stupire solo per il gusto di farlo. Si può sperare che questo disco sia una sorta di laboratorio per il futuro, con l’autore che, nelle prove successive, sarà nuovamente in grado, da solo o con l’aiuto di qualcun altro, di dare un senso alla propria verve, ma se dobbiamo giudicare questa prova solo per quello che ci dà come ascoltatori, essa è insufficiente.

VELOCITÀ: anche qui, molto varia.

IL TESTO:Occhi di Penelope, la sera delle piume nere, breccia con il glicine, all’incubo del fiume” da Penelope

LA DICHIARAZIONE:Le canzoni e le suite musicali sono collegate fra di loro logicamente” da un’intervista a ‘diavolettolabel.com’. Purtroppo, questa logica non si nota all’ascolto

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