Sala stampa: Pinguini Tattici Nucleari
Oggi, 2 dicembre, esce Fake News, il nuovo disco dei Pinguini Tattici Nucleari, il primo da quando la band è arrivata all’esposizione mediatica che tutti conosciamo. Probabilmente, qualche lettore si starà chiedendo perché stiamo parlando di loro, e la risposta è dovuta al percorso che la band bergamasca ha avuto. Ci interessava, infatti, capire i ragionamenti e il modo di esporre le cose da parte di musicisti che non si sono limitati alla trafila già percorsa da altri prima di loro, ma che hanno rotto il cosiddetto soffitto di cristallo e sono finiti nello stardom. Ci siamo, quindi, recati con curiosità alla conferenza stampa e abbiamo trovato persone prima di tutto molto oneste, che non si atteggiano a eroi della musica ma raccontano, con molta spontaneità, che hanno avuto successo semplicemente perché si sono presi uno spazio che non sembrava interessare a nessun altro e che, ormai, non possono non tenere conto del seguito che hanno quando fanno musica, compreso il fatto che, indubbiamente, almeno parte di questo seguito è composto da ascoltatori casuali e non certo attenti o davvero appassionati di musica. Qui sotto c’è un riassunto di ciò che i sei musicisti hanno raccontato in 80 minuti complessivi, presentando se stessi e il disco e rispondendo alle domande prevenienti dalla numerosa platea di giornalisti.
Il titolo e il concept del disco
Quest’estate, nel pieno del tour, ci siamo casualmente messi a parlare di fake news e abbiamo capito che ogni tanto noi raccontiamo delle bugie nelle nostre canzoni, nel senso che magari raccontiamo storie che abbiamo sentito da amici e le spacciamo come nostre, e poi a forza di cantarle ci sembrano vere, un po’ come succede con le fake news, che ripetute 100 volte diventano vere. Non possiamo, inoltre, negare che le fake news abbiano un certo fascino, ma dall’altro lato ne abbiamo noi stessi subito le conseguenze quando, pochi mesi fa, qualcuno ha sparso la voce che Riccardo avrebbe iniziato una carriera solista e lui ha dovuto passare un’intera giornata mentre era in vacanza in Irlanda a rispondere ai messaggi delle persone. In realtà, in diversi passaggi, il disco è anche autoreferenziale, però abbiamo capito, da altre cose di successo provenienti dalla trap e dal rap, che anche parlare di cose che riguardano noi può essere interessante per il pubblico. È stato un disco difficile perché ci abbiamo messo tanto tempo non solo a registrarlo, ma anche a partorirlo creativamente, e quindi lo sentiamo come un album maturo, anche se spesso la maturità è l’anticamera del diventare marci e, al di là della metafora, di non stupire più nessuno e, di conseguenza, finire nel dimenticatoio. Siamo contenti di aver realizzato un disco ampio, che in alcuni brani segue le tendenze della musica più moderna e in altre si rifà maggiormente alla tradizione delle canzoni.
Il processo creativo
Adeso in studio ci mettiamo tanto a fare le cose, perché ci sono confronti e discussioni, però poi quando arriviamo al risultato finale è una gioia. Ovviamente, rispetto al passato, molte cose sono cambiate e ora il confronto è più clinico, perché ora sappiamo che sicuramente le nostre canzoni saranno sicuramente ascoltate da un sacco di gente e molti le passeranno al dettaglio. Vogliamo sempre tirar fuori la miglior canzone possibile, che sia in grado di arrivare alle persone e dar loro qualcosa. Ci rendiamo conto di avere un certo peso specifico e questa cosa un po’ spaventa. Rispetto al passato, abbiamo scoperto la dimensione dello studio, nel senso che prima stavamo molto di più in sala prove a cercare insieme gli arrangiamenti, mentre ora, invece, proviamo le cose molto di più in studio, tu senti come una cosa potrebbe suonare, la metti su una traccia e senti come suona, e poi ne fai 10, o 20. Procedere in questo modo dà certamente dei vantaggi, ma anche qualche problema, noi abbiamo usato sempre entrambe le cose, e anche stavolta abbiamo cercato e trovato diverse soluzioni in sala prove, ma certamente siamo rimasti molto di più in studio rispetto ai dischi precedenti.
Il ruolo della pandemia e l’importanza di essere una band
In diverse canzoni si parla anche di solitudine ed è evidentemente un riflesso del periodo della pandemia. Per noi è stata una sofferenza soprattutto il fatto di non poter suonare dal vivo, e sarebbe stato ipocrita non parlarne. La pandemia, inoltre, è stato uno dei fattori che ha fatto sì che rimanessimo in studio per molto più tempo rispetto ai dischi precedenti, come dicevamo sopra. Noi siamo riusciti a superare tutto questo anche grazie al fatto di essere una band, cosa che ci ha permesso di stare uniti e di sostenerci a vicenda. Ormai, tra le cose di maggior successo in ambito musicale, le band stanno sempre più scomparendo, e noi siamo contenti e fieri di avere la possibilità di portare avanti questo stendardo. Anche per il pubblico, l’essere una band comunica cose diverse rispetto ad altri progetti musicali, sempre rimanendo nell’ambito dei progetti di maggior successo. Secondo noi è uno spreco il fatto che ci siano così poche band di successo, perché il linguaggio di una band è diverso da quello di un artista solista e, poiché è il risultato del punto di incontro tra più persone, dovrebbe essere meglio in grado di rappresentare il sentire comune. E poi l’equilibrio dinamico tra i diversi membri di una band è un qualcosa che viene percepito dal pubblico, anche se non abbiamo certo la pretesa che tutti quelli che ci seguono siano attenti e vispi su queste cose. E quando le cose non andranno più bene, e prima o poi succederà, continueremo a sostenerci a vicenda, e l’essere in sei aiuta molto.

Aver riempito uno spazio
Noi, con naturalezza e semplicemente seguendo la nostra indole, riempiamo uno spazio che, a livello mainstream, non è molto frequentato, però, al di là delle singole posizioni nelle classifiche di vendita, noi puntiamo a rimanere a lungo e contiamo che, col fatto di differenziarci a questo livello, possiamo farlo. Non abbiamo problemi a dire che puntiamo a diventare un fenomeno generazionale, ma ancora non ci siamo arrivati, abbiamo tanto da dimostrare per riuscirci. Per noi è normale raccontare ciò che vediamo e abbiamo la fortuna di essere bravi a rappresentarlo, e quindi a coinvolgere la nostra generazione. Se ci pensiamo, ci sembra quasi assurdo tutto questo interesse nei nostri confronti, però non avrebbe senso nascondere le nostre ambizioni a questo punto, anche perché ci rendiamo conto che, almeno in Italia, non abbiamo competitor diretti. Nel mondo esistono ancora band che fanno grandi numeri, pensiamo ai 1975 o ai Coldplay, ma qui sembra che una band possa solo o essere una boy band o fare musica alternativa, ed è venuta sempre più a mancare l’idea di una proposta corale che facesse semplicemente musica leggera. È strano, ma in questo spazio non c’era nessuno, così noi vi ci siamo seduti e ce lo siamo preso tutto quanto. Certo, non è solo un concetto di marketing, ma è anche frutto di tanto lavoro.
Il rapporto col successo e con le opinioni del pubblico
Confessiamo di leggere abbastanza i commenti della gente sui social, ed è un difetto, perché dovresti fare musica pensando solo alle scelte che vuoi fare, ma la verità è che, per noi, il pubblico è sempre stato fondamentale, e chi fa pop deve quasi sempre ragionare così. Ci è sempre piaciuto l’aspetto comunitario non solo dell’essere una band, ma anche di avere un rapporto col pubblico e creare interesse. Quando sei sul palco, è bello guardarsi negli occhi con chi sta sotto, e la nostra storia nasce da qui. Certe critiche, comunque, le capiamo, anche le ultime in relazione alla scelta di andare a suonare negli stadi. È stato certamente un azzardo, e fa quasi piacere che ci siano delle critiche perché ci fa capire che sta succedendo qualcosa di importante. Dall’altro lato, i risultati ci sono, e non potremmo essere più contenti di così. Speriamo che il disco invogli ancora più gente a comprare i biglietti perché la nostra dimensione è quella dei concerti, infatti noi non vogliamo che etichetta discografica, ufficio stampa e booking rimangano cose separate, ma ci teniamo che tutti parlino con tutti e ci impegniamo personalmente affinché ciò accada. Noi comunque cerchiamo di rimanere il più possibile i classici ragazzi della porta accanto, capiamo di avere responsabilità e ci sentiamo persone coi piedi per terra, non ci siamo montati la testa e anche all’interno della band tutti si sentono importanti allo stesso modo. Anche il fatto che le idee germinali e tutti i testi arrivino da una sola persona non toglie nulla al concetto di band. Noi vogliamo evitare i salotti e, in generale, di andare in contesti non nostri, viviamo ancora dove vivevamo prima e ci piace abbracciare l’etica del lavoro tipica della nostra città. Dopodiché, come dicevamo sopra, siamo coscienti di avere un ampio seguito, ma spesso scriviamo solo per noi stessi e alcune canzoni hanno un significato che possiamo capire pienamente solo noi. E se qualcuno, appena parte una nostra canzone, riconosce che siamo noi e dice subito “mi fanno schifo i Pinguini”, a noi va benissimo, perché in un certo modo riconosce i nostri impulsi creativi, e ciò è dato dal fatto che questi impulsi li abbiamo messi sempre e solo noi e nessun altro è mai intervenuto nella nostra creatività.
Le singole canzoni
Hikikomori è un gioco di parallelismi tra la condizione che dà il titolo alla canzone e quella in cui le coppie si sono trovate durante la pandemia. Secondo noi questo non è un modo sano di vivere, e bisognerebbe sempre di più cercare di stare in situazioni il più possibile comunitarie. Più stai da solo e più svantaggi hai e più è difficile uscire da questa situazione. Però non si può ridurre questo fenomeno a pigrizia e svogliatezza, bisogna anche tenere conto che oggi c’è sempre più la cultura dell’essere primi, della competizione, ed è ovvio che essa vada a creare distorsioni di questo tipo. Tacciare queste persone di essere pigri è molto riduttivo, perché se le persone non riescono a stare a proprio agio nella società, è un problema della società, non degli individui. Bisogna ripensare al modo di stare insieme, perché se questo significa essere sempre in competizione, non va bene. Noi stessi non vogliamo essere un esempio di persone di successo, ma di persone che sono contente e si può esserlo anche senza il minimo successo. Non Sono Cool è un brano molto ironico, buttiamo dentro qualche frecciatina su un certo tipo di establishment che mette la coolness al centro di un progetto che funziona bene. Invece, per noi è importante fare bene il proprio lavoro da musicisti, e il resto è una conseguenza e un effetto collaterale. Per noi non è un problema vedere altri che curano l’aspetto estetico più di noi, pensiamo ai Maneskin per i quali proviamo stima, ma non ci piace l’aspetto dell’estetica di altri musicisti di successo che porta a “flexare” e a gonfiare ogni singolo risultato ottenuto. La musica, per fortuna, ti permette anche di essere chi sei davvero e non devi necessariamente creare delle maschere. Prendiamo uno come Max Pezzali, che ancora oggi sale sul palco vestito come gli pare, magari a un certo punto dice anche tranquillamente di avere la patta dei pantaloni aperta, e dopo 30 anni fa ancora cantare tutti. Siamo sinceri, in altri ambiti questa cosa non è concessa.
Cosa aspettarsi dai live negli stadi
Quando si ha un tour più nutrito, come il nostro, ci si può permettere di fare più cose. Certo, come abbiamo detto, non ci aspettavamo un risultato simile, e quindi solo ora stiamo valutando le idee. Vorremmo portare sul palco un lato narrativo, per far capire alle persone cosa abbiamo vissuto nelle cose che raccontiamo nelle nostre canzoni, vorremmo quasi dare un’anima alle cose, anche perché nel disco ci sono molte immagini che rimandano a determinate cose, a determinati oggetti. Vogliamo divertirci e raccontare al meglio le nostre storie. Poi, dal punto di vista musicale, cambierà senza dubbio l’approccio al live, perché da un lato ci sarà molta più preparazione, ma dall’altro vorremo cercare di semplificare gli arrangiamenti perché non ti puoi permettere di proporre cose troppo complesse in arene enormi di quel tipo, non avrebbe resa, tante cose si perderebbero ed è un segno di maturità capire che bisogna far arrivare le canzoni al pubblico e che ci vuole un suono più semplice e compatto in quel contesto. Già ce ne siamo accorti suonando nei palazzetti, a noi è sempre piaciuto avere dei momenti in cui ogni strumento segue una propria linea, visto che veniamo dal prog, anche se a qualcuno questa cosa potrebbe far sorridere, ma in luoghi così ampi questa scelta non rende. Dovremo rendere il nostro linguaggio musicale più minimale e togliere qualche orpello. Hai voglia a dire che le arene suonano male, devono anche essere i musicisti a capire il tipo di arrangiamento giusto da proporre nelle arene. Semplificare è una sfida, anche perché non devi perdere nulla in cantabilità e nella possibilità di comprensione delle canzoni da parte del pubblico, altrimenti non serve a niente.
L’idea di fare altro oltre ai musicisti o di cantare in altre lingue
Può capitare che a un musicista venga voglia di fare televisione, di recitare, o semplicemente di fare l’influencer, e c’è chi decide di farlo, e in realtà non significa vendere l’anima al diavolo, come molti tra il pubblico pensano, ma semplicemente si vogliono fare altre cose. Nella musica, in particolare, questa cosa è spesso ma vista, e possiamo capirlo, perché potrebbe sembrare che se ne vada un po’ di verità dal progetto. Nel nostro caso, abbiamo detto di no a diversi brand, e anche ad altri mondi che hanno cercato di attrarci. Ci sentiamo di voler mettere tuta la nostra professionalità al servizio della musica e delle canzoni, e non abbiamo nemmeno l’idea di provare ad ampliare il nostro pubblico fuori dall’Italia cantando in altre lingue, lo spagnolo non lo parliamo e non andremmo mai a promuoverci in posti dove non parliamo la lingua, e sull’inglese ci rendiamo conto che una band come la nostra non sarebbe potuta nascere in Inghilterra, perché lì la realtà musicale è di stampo molto più imprenditoriale, mentre noi non abbiamo mai voluto investire soldi nostri e ci siamo subito detti che saremmo andati avanti solo se avessimo guadagnato abbastanza coi primi concerti per poter reinvestire questi guadagni. Non ci piace l’idea di proporci in un mercato dove non saremmo potuti nascere, e inoltre, troppo spesso nei nostri testi ci sono giochi di parole impossibili da rendere in una lingua diversa dall’italiano.



