Tradizione italiana e suono internazionale: la via dei Sequoia

L’idea di far convivere un impianto compositivo che si ispira agli esponenti più importanti della canzone di casa nostra e un suono che, invece, guarda all’estero, soprattutto Oltremanica e Oltreoceano, non è certo nuova, ma, per fortuna, è possibile mettere in pratica questo concetto con molte modalità diverse, e quella scelta dai Sequoia può certamente vantare una forte riconoscibilità. Il quintetto proveniente dall’hinterland Nord di Milano, infatti, mette assieme una forte rotondità melodica, una marcata pienezza vocale e un’importante forza evocativa dei testi con suoni che rimandano sia alla Gran Bretagna, segnatamente ai primi Radiohead e agli Oasis più magniloquenti, quelli di “Be Here Now” per intenderci, che agli Stati Uniti, con un riferimento conosciuto come gli Smashing Pumpkins e un altro più di culto come i Red House Painters.

Del resto, la band è al debutto, ma i cinque musicisti hanno un lungo percorso alle spalle, con alcuni di loro che hanno già militato nella stessa band e con tutti quanti che comunque sono amici da una vita. In particolare, il chitarrista Andrea Giambelli e la sezione ritmica composta da Gabriele Prada e Muddy Brambilla suonavano nei Dust, mentre il cantante Marco Colombo e l’altro chitarrista Mattia Frenna erano l’anima dei Motel 20099. Chi conosce queste band saprà certamente che il sopra descritto lato statunitense del suono proviene dai Dust mentre quello britannico dai Motel, mentre invece il confronto con gli aspetti tipici dell’Italia è una novità per tutti. Certo, Marco Colombo ha sempre cantato in Italiano (o parlato, come nel caso dei Carver, progetto condiviso con Matteo Cantaluppi, che ha prodotto il disco e che qui emerge come ispirazione nel brano conclusivo Singapore Sling), ma non basta usare una lingua per aderire alla tradizione di un Paese, quindi anche per lui questa era una sfida del tutto nuova.

Sarebbe bello e interessante sapere com’è avvenuta a livello pratico la crasi sonora tra Gran Bretagna e Stati Uniti nelle dieci canzoni del disco, e mi riservo di fare questa domanda direttamente al quintetto nel momento in cui dovessimo riuscire a organizzare un’intervista. Qui, in sede di analisi, mi preme sottolineare il fatto che le componenti non restano separate, ma si mescolano per un risultato intrigante e dotato di una forte personalità. Certamente ci sono momenti specifici in cui uno dei riferimenti citati viene in mente in modo netto, ma sono di più quelli in cui il risultato è frutto di una chiara mescolanza di stili, coi diversi elementi che si permeano l’uno con gli altri, quasi che fossero come colori posti su una tavolozza e scelti ogni per creare una specifica sfumatura non visiva, ma sonora.

Naturalmente, per far sì che componenti musicali abbastanza diverse per natura riescano a stare bene insieme, deve succedere che ognuna di esse abbia una caratteristica che la faccia tendere verso le altre. In questo caso, dove c’è rarefazione appare sempre un pizzico di distorsione, dove c’è pienezza non manca mai la giusta dose di ruvidità, dove c’è un omaggio alla tradizione esso è sempre accompagnato da uno sguardo verso la contemporaneità. E queste tre affermazioni si possono benissimo declinare all’opposto, per un lavoro complessivo davvero certosino e attento a ogni dettaglio e aspetto: quello sonoro, quello ritmico, quello vocale e quello dei testi. Qui mi viene in mente la nota meticolosità dei Dust, ma anche la capacità da parte di Cantaluppi di non renderla esagerata e ridondante, cose di cui avevo discusso in un’intervista con la band legata a un EP sul quale loro e il produttore avevano lavorato assieme.

L’importante, comunque, è che all’orecchio dell’ascoltatore attento, questo disco suoni come la perla che è. Difficilmente ci sarà un hype diffuso, perché stiamo parlando di una concezione musicale troppo fuori moda e in realtà adatta a una fascia di pubblico che, purtroppo, sta perdendo la curiosità per le nuove proposte, anche quelle che si adatterebbero al loro gusto che sarebbero in grado di solleticare certe corde. Però, questi sei ragazzi, i cinque musicisti più il produttore, sono vecchi lupi di mare e sanno capire quando è giusto e bello fare le cose assieme per il gusto di farle e l’orgoglio di tirar fuori un risultato di tale qualità. E magari sarà bello ritrovarsi tutti all’Agorà di Cusano Milanino, il riferimento per eccellenza del bel movimento musicale della zona, a farsi investire da tutta questa bellezza. Intanto, ogni volta che ascolteremo questo lavoro, daremo la mano vuota ai Sequoia, e la mano ritornerà piena.

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