Roccia Ruvida: Classica Orchestra Afrobeat

Quando trovi un artista dietro la tastiera difficilmente ne esce incolume. Spalle al muro sono stato da risposte intelligenti e sicuramente poco maneggevoli per chi come me ha una cultura piccola a fronte di un disco ampio come “Circles” e come il lavoro che da tempo porta avanti Marco Zanotti e la sua Classica Orchestra Afrobeat. Sa starci al veleno di certe domande che ovviamente sperano sempre di tirar fuori la vera critica che noi vogliamo portare avanti. Un sistema sempre più pop, sempre devoto a tramandare la massa, l’omologazione e la cultura del conformismo tecnico-economico-culturale-estetico e compagnia cantando. Poi arrivano dischi come quelli della Classica Orchestra Afrobeat e noi dobbiamo farci piccoli piccoli e restare in ascolto. Almeno questo. E star zitti alle volte è vero segno di rispetto per la cultura altrui e per l’ignoranza nostra. Il nuovo disco della Classica Orchestra Afrobeat è un’esperienza apolide multiculturale da comprare, in vinile… vietato cliccarla sui computer.

Tante scritte e tante radici culturali che ovviamente sono distanti anni luce dalla quotidianità di chiunque di noi. Un modo per darsi arie di artisti super partes? Oppure un modo per non avere un contraddittorio sulla validità di certi riferimenti?

Parto dalla tua prima affermazione che è malposta: che i mondi a cui ci riferiamo siano distanti non è nè ovvio nè assoluto, quantomeno non vale per chiunque. Quello che è significativo è che i media mainstream continuano sulle monocolture di pop, indie o più in generale di musica anglosassone. È davvero un peccato, per non dire una colpa. Sono convinto che il mondo sarebbe migliore se l’offerta di spunti artistici fosse più ampia e variegata. Quanto all’essere super-partes, la nostra posizione è ben chiara sin dal primo album che rileggeva Fela Kuti in chiave barocca fino a “Circles”: ci posizioniamo più lontano possibile dal modello di sviluppo occidentale, appellandoci alla diversità, alla resilienza e al rispetto come messaggi. E per questo la nostra musica è orgogliosamente impegnata, altroché super-partes.

Radici antiche di popoli forse neanche più esistenti si mescolano a immaginari allegorici con i Mutoid e a scritture nuove di questo tempo. Come dire: un miscuglio di tutto un po’?

(NB. per fortuna gli Shona, i Wolof, gli Gnawa e gli altri da cui traiamo alcune ispirazioni sono vivi e vegeti e hanno una importante produzione artistica, è il mercato che te li rende invisibili)

L’elemento circolare è presente nei rituali, nelle preghiere e nei canti di tantissime culture, sia ancestrali che contemporanee. Nel cerchio non c’è gerarchia ma cooperazione, ciò che è circolare è sostenibile e pacifico. Ci siamo immaginati un futuro in cui l’essere umano torna ad una vita più spirituale, circolare, chiedendo consigli agli antenati quantomeno per non ripetere gli stessi errori. E nel futuro, con le catene montuose di rifiuti che ci ritroveremo, l’upcycle diventerà un mantra. Del resto, i palazzi, le tazzine e le biciclette del futuro chi credi che le abbia costruite? I Mutoids, ovviamente.

E in tutto questo miscuglio di riferimenti, l’uomo che mettete al centro, come lo rintracciamo?

L’essere umano nel nostro album precedente, “Polyphonie”, lo avevamo posto nel mezzo di una foresta pluviale, in totale sintonia e simbiosi con il mondo vegetale e animale. Nello scenario futuristico di “Circles” l’uomo potrebbe trovarsi in minoranza, in difetto, sopraffatto dai disastri ambientali o dalle intelligenze artificiali. Per questo, chissà, ritroverà nella spiritualità e nel cerchio un fonte di comunione con ciò che lo circonda.

Non è che poi alla fine succede come spesso vedo fare, cioè che fatta la minestra la si codifica con riferimenti e altro? Come a dire: intanto scriviamo il disco poi vediamo di dargli una lettura…

Sai che fatica in più?… Di solito io parto dal soffritto. Quindi dalla base. E alla base c’è il cerchio, la circolarità. In questo caso il sedano, la carota e la cipolla sono stati la mbira (lamellofono presente un po’ ovunque nell’Africa subsahariana), il gong e un’orchestra da camera.

E a voi anche la domanda di rito: tanto lavoro, tanta fatica, tanti denari investiti. Ma poi perché o con quale coraggio lo regaliamo su Spotify e tutti gli altri streaming service? La difesa del lavoro e del suo lavoro, non dovrebbe partire proprio da queste basi?

Ahh quanto hai ragione, quella roba fa parte del modello predatorio di sfruttamento di cui parliamo e se per altri lavori ne sono rimasto coerentemente al di fuori, ma poi finite per dire che ci stiamo estinguendo perché non siamo su Spotify…. È la vecchia diatriba tra provare a cambiare le cose dall’esterno o dall’interno. Di sicuro non siamo noi che alimentiamo Spotify e simili, io manco so come si accede. Posso dire che di “Circles”, cosi come di “Polyphonie”, abbiamo stampato dei bellissimi vinili, convinti che chi apprezza la nostra musica preferisca farlo in questo modo analogico. Del resto di far girare le cose parliamo, no?

E come sempre chiudiamo senza fare la guerra, anzi grazie di cuore per esservi prestati a questo gioco. Ma davvero “Circles” sembra essere un collettore di culture altre che non hanno tempo e geografie univoche. E se vogliamo lo stesso discorso vale per il tempo… è un disco apolide, senza riferimenti. Come dovrebbe essere l’uomo su questa terra in fondo.

Che sia questo il vero cuore letterario dell’opera?

Apolide ci sto, ma i riferimenti e le provenienze di ciascuno sono parte della bellezza del genere umano, penso che conoscerle e praticare il rispetto e la cooperazione invece che la competizione sia la chiave per avere un futuro di pace.

Grazie a voi per queste domande!

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *