Interview: Lele Battista
Avevo realizzato quest’intervista con Lele Battista ancora a fine novembre, poi è arrivato il mio matrimonio e il conseguente viaggio di nozze e ho dovuto rimandare la pubblicazione. Eppure non mi sono mai dimenticato di Lele, in realtà, visto che in cuffia, anche lontano dal mio PC e dalla mio stereo, ho avuto spesso il suo ultimo pregevole album Mi Do Mi Medio Mi mento. Un disco profondo, elegante, che guarda agli anni ’80 e che, come sempre quando si parla di questo artista, ha dei testi che meritano assoluta attenzione. Una chiacchierata via mail era più che doverosa…
Ciao Lele, come stai? Da dove ci scrivi?
Ciao, in una piovosa domenica sera d’autunno vi scrivo dal mio studio di Milano.
Dal 2006 “solo” (lo metto tra virgolette!) tre album, non si può certo dire che tu sia artista che punta alla quantità, ma alla qualità. Eppure mi piace sempre sapere come un artista riempia il suo tempo tra un disco e l’altro e se i brani presenti nel disco siano frutto di un lavoro di anni o, nonostante tutto, siano invece scritti e prodotti in tempo recente…
Ho impiegato questi anni intervenendo sui dischi di altri, facendo produzioni e collaborazioni. Ho anche lavorato in radio e in televisione. Soprattutto, però, ho accumulato esperienze che compaiono trasfigurate in questi otto brani. Insomma per fare un disco ci vuole del vissuto da raccontare e in questo lavoro di vissuto ce n’è tanto.
Partirei dalla copertina: una tua immagine non nitida, in movimento. E’ una mia fantasia, ma forse è l’immagine migliore per esprimere un concetto di un titolo che ti fa “uno e trino”: capace di concedersi e darsi delle cose (o forse dei vizi), capace anche di mediare con sè stesso e (forse) essere equilibrato e per ultimo capace, invece, di mentirsi e non ascoltarsi per non avere ipotetici dubbi di coscienza (per poi averli invece!). Non poteva certo esserci un’immagine di te fermo e statico. Che ne pensi?
In realtà la copertina è nata prima del titolo da un’idea di Gaben che cura l’immagine di questo disco, oltre che suonarvi il basso. A differenza dei miei lavori precedenti, che erano praticamente due concept album il cui titolo nasceva quasi come prima cosa, ho deciso, come per altri aspetti legati alla realizzazione di questo disco, di utilizzare la tecnica del cut-up. Da questo gioco è uscito il titolo “mi do”, e pensando sia alla copertina che al senso generale dei testi mi è venuto naturale aggiungere “mi medio, mi mento”.
Era destino che tu incidessi per la nuova etichetta di Mauro Ermanno Giovanardi, non a caso l’ultima traccia del tuo precedente disco era proprio un duetto con lui, in cui si parlava di attenzione, di nuovi particolari da mettere in campo: Mauro è riuscito, in ambito musicale a darti questi nuovi spunti di attenzione?
Joe, dopo aver ascoltato i brani, mi ha praticamente obbligato a portare a termine questo lavoro che avevo cominciato anni fa ed era rimasto sospeso, suggerendomi di lavorare con Leziero Rescigno, il quale è riuscito a entrare in sintonia con i brani e a farli uscire da quella sorta di limbo in cui li tenevo conservati.
Un disco che acquista una dimensione a tratti più “synthetica” ed elettronica rispetto ai precedenti dischi, eppure permettimi di dire che se c’è uno che questi suoni li può fare tranquillamente senza paura di essere accusato di salire su un (ipotetico) carozzone anni ’80 (che ora vanno tanto di moda nella musica italiana), beh, quello sei tu…
Il suono di questo disco è trasversale sia per le macchine che sono state utilizzate (sintetizzatori e drum-machine di varie epoche dagli anni ’60 ad oggi), sia perché queste macchine non sono state programmate, ma suonate in lunghe e psichedeliche jam session con i musicisti Giorgio Mastrocola, Niccolò Bodini de “La Scapigliatura” e Gaben.
E se per non diventare “barbari” fosse invece necessario fare “un casino pazzesco“?
La barbarie di cui parlo è costituita dall’ordine e dall’organizzazione della società occidentale, ben diversa dal casino pazzesco che ognuno di noi porta dentro di sé e che ci si trova spesso a cercare di soffocare. Se fossimo liberi di esprimere il nostro disordine interiore probabilmente quella stessa barbarie non troverebbe modo di svilupparsi.
“Se questo fosse un sogno” ci mostra il tuo lato più caldo, umano ed avvolgente ed è bello trovarlo in una canzone che parla di “distinzione dalla macchina“…
Il tema ricorrente dell’album è l’alienazione, ma anche possibilità di riscatto dell’uomo rispetto alla macchina intesa come simbolo dell’omologazione.
C’è qualcosa nel disco che, a lavoro finito, ti ha particolarmente colpito, riascoltandolo?
Quando riascolto un disco dopo averci lavorato a lungo di solito lo faccio con l’orecchio del “tecnico”, quindi, più che qualcosa che mi ha colpito riascoltandolo, a colpirmi sono ogni volta particolari che le persone che lo hanno ascoltato per la prima volta mi fanno notare.
Oltre al tuo disco (e spero anche a un tour) stai lavorando su qualche altro progetto?
Avendo uno studio di registrazione, ho la fortuna di condividere progetti artistici molto interessanti, e la cosa mi lascia ogni giorno la sensazione di aver contribuito a creare qualcosa di magico.
Per quanto riguarda il tour, mi piacerebbe portare nei teatri questo suono più da club. Ci stiamo lavorando.
A volte mi chiedo se qualcuno non voglia, volutamente, essere “Da un’altra parte” per evitare di affrontare le brutture che ci sbatte addosso la realtà. Certo nella tua canzone si fa riferimento a chi si aliena dal presente più per cause di forza maggiore che per una sua effettiva volontà, ma ti volevo chiedere se a volte anche tu non senti il bisogno o non ha la speranza di essere da un’altra parte…
Certo, quasi sempre, ed è proprio di questo che parla la canzone, scritta a quattro mani con quello che considero essere il mio cantautore italiano preferito: Yuri Beretta.
Grazie ancora Lele per la tua gentilezza. Con quale canzone (dal tuo album o di un altro artista) potremmo chiudere la nostra chiacchierata?
Visto che l’ho citato, chiuderei proprio con Yuri Beretta e la sua Che c’è.