Interview: Barachetti/Ruggeri

Archiviata la proficua esperienza con la band bergamasca Bancale, la carriera musicale di Luca Barachetti sembrava essersi ricollocata verso altri orizzonti o, più precisamente, dall’altro “lato della barricata”, come si suol dire. La nascita dell’ufficio stampa “Macramé – Trame comunicative” esauriva di fatto un trittico che, nel giro di pochi anni, lo aveva portato a ricoprire il ruolo di cantante/salmodiante in uno dei progetti più lucidi e caratteristici proposti ultimamente dalla nostra scena underground, giornalista musicale e, appunto, promoter/addetto stampa per realtà provenienti dai dintorni di Bergamo (ma non solo).
E forse proprio grazie alla versatilità di Luca è avvenuto l’incontro con il produttore e musicista sperimentale Enrico Ruggeri, ex Hogwash e già autore di alcuni apprezzabili lavori solisti (Musteri Hinna Föllnu Steina, IUS e altri).
Il risultato di questo incontro è “White Out”, un concept che sviscera con mano chirurgica l’emicrania irreversibile che crivella la nostra civiltà dal momento in cui l’Occidente – inteso come entità economica e sociale – ha deciso di sposare il capitalismo come frontiera totalizzante del suo esistere.
Di solito una qualsivoglia produzione musicale che per essere apprezzata necessita di una contestualizzazione o di un approfondimento ulteriore viene considerata zoppa o deficitaria. In questo caso, però, ritengo che l’approfondimento delle tematiche alla base di questo album possa essere una sorta di “testo a fronte”, utile per apprezzare ancora di più la poetica di un’opera complessa, provocatoria e contundente.

Dopo mesi di “sabotaggi” a mezzo web (performance, anticipazioni, video, un diario sulla vostra pagina Facebook) è uscito “White Out”, il primo disco dell’accoppiata B/R. Alla base di questo lavoro, un concetto forte che si apre a molteplici letture: il male di testa. Innanzitutto ti chiederei di precisare perché “male” e non “mal”, si annida una differenza di significato in questa “e”? Forse si tratta di un male generato nella testa e non di un male alla testa?
Luca Barachetti: Sì, la scelta di utilizzare male di testa anziché mal di testa è del tutto volontaria e consapevole. L’aggiunta della e allarga il significato della parola mal ad una dimensione assoluta, da cui scaturisce un piano ontologico e dunque metafisico: il Male. In “White Out” non si parla di un evento medicalizzato (appunto il mal di testa) ma di un dolore che è un dolore esistenziale e riguarda il (non) senso, l’alienazione di vivere il contemporaneo. Ciò comprende anche le categorie di Bene e Male e dà al tutto una vibrazione ulteriore che ho voluto lasciare solo come accenno ma è fondamentale, perché il Male in questione è il capitalismo, mentre il Bene è un ritorno all’umano, ovvero al proprio limite e alle questioni essenziali che ci riguardano e possono dare una ragione al nostro essere al mondo (amore, passioni, dolore, morte), cose che secondo me sono l’unica via di salvezza. Perciò alla tua domanda rispondo che il male è nella testa dell’Occidente ed è il capitale e alla testa di chi vive questo nostro tempo ed è l’alienazione. Sei la prima persona ad avere colto questa sfumatura su cui ho sbattuto la testa, guarda caso, per mesi. Te ne sono grato.

Nella presentazione dell’album affermi che “l’Occidente ha l’emicrania”. Cosa intendi? Si tratta di un disturbo che a tuo avviso riguarda solamente la società occidentalizzata?
LB: Intendo dire che la testa dell’Occidente, ciò che lo regola e qualifica come tale, è profondamente sofferente. Le cause di questa sofferenza sono quelle tipiche del male di testa: eccesso di lavoro e precarietà esistenziale, dunque stress e ansia, “indigestione” di stimoli e informazioni, spaesamento, alienazione, burn out. Ne è affetto tutto l’occidente “storico” e ne saranno sempre più affette tutte le società occidentalizzate, ovvero la maggior parte del nostro pianeta. Ciò accade perché un mondo in cui al centro c’è il denaro non può fare altro che ridurre l’uomo a rotellina di un ingranaggio che sarà sempre mortifero (mi riferisco a una morte psicologica, spirituale, ma anche fisica). Il bancomat non dà senso alla vita, ma la devitalizza.

Hai definito “analgesici” quattro dei dodici brani (Dolore bianco, Uomo scritturato, Fiume verticale, Cretto del vero). Personalmente, non riesco a capire cosa intendi con “analgesico”. Sono perfino andato a cercami l’esatta definizione (“farmaco che attenua o elimina la sensazione del dolore senza ridurre lo stato di coscienza”), ma non vedo alcuna tregua nei pezzi citati, anzi, alcuni di essi mi sembrano tra i capitoli più angoscianti e paranoici dell’intero disco. Dove c’è tregua? Dove sollievo?
LB: Uomo scritturato, San Sebastiano, Cretto del vero e Fiume verticale sono quattro brani analgesici nel senso che provano a suggerire una soluzione, non definitiva ma come primo passo, per uscire da una situazione che a livello di collettivo, proprio di massa, sta diventando insostenibile. Una soluzione che non sia farmacologica – com’è ora in Occidente (basta leggere le statistiche sul consumo di psicofarmaci e ansiolitici assortiti nel nostro Paese per capirlo) – ma apra invece delle prospettive di significato esistenziale. Sono quattro inviti e riguardano l’intensità della vita nelle sue cose essenziali tutte da riaccogliere, l’amore come trafittura e apertura all’Altro, la consapevolezza della propria condizione umana e la spiritualità, una spiritualità laica che riguarda la materia biologica, il cielo, la carne, la morte e la rinascita. In questi brani non c’è tregua, anzi, c’è proprio uno spirito di battaglia perché è una battaglia quella che con “White Out” vogliamo combattere: da una parte l’umano, l’amore, la vita, dall’altra il capitale e la tecnica. Non c’è nemmeno sollievo perché il riavvicinarsi all’umano è sempre angosciante, soprattutto quando si è quasi del tutto disumanizzati. C’è però salvezza, o almeno un tentativo, e c’è una rifondazione dell’umano, anche nella sua dimensione tragica, da intendere alla greca, come quello che è stato il motore fecondo e vitale dell’Occidente per molto tempo.

B/R. Una sigla che in Italia non richiama soltanto le vostre iniziali. Perché avete scelto questo nome per il vostro progetto?
LB: Quando io e Enrico abbiamo iniziato a pensare ad un progetto insieme non avevamo la benché minima idea di un nome. Poi mi è venuto in mente che, come Ricci/Forte, potevamo chiamarci Barachetti / Ruggeri. Suona bene e mantiene intatto il senso del nostro fare, che non è quello di un gruppo ma di due individualità che si incontrano e scontrano. Da subito ci siamo accorti che potevamo passare come dei nostalgici di Moretti e compagnia ma in fondo, per la scarsa salute etica di questo Paese, sarebbe stato più grave chiamarsi Parachetti / Duggeri, no?

Come è avvenuto l’incontro con Enrico Ruggeri? In quale occasione avete deciso di avviare la vostra collaborazione?
LB: Io ed Enrico Ruggeri abbiamo vissuto l’intensa esperienza di Neverlab, collettivo bergamasco nato come propulsore di eventi e poi diventato un’entità capace di produrre dischi e libri. Proprio il primo disco del suo nuovo percorso sperimentale ci ha molto avvicinato e personalmente ha aperto una nuova prospettiva dopo la fine dell’esperienza Bancale. Lavorare con Enrico è molto gratificante, sia perché è un autentico, grande artigiano dei suoni, sia perché è un musicista che vive la collaborazione con qualcuno d’altro in uno stato di totale attenzione, cosa non proprio comune di questi tempi.

Ho avuto modo di ascoltare alcuni brani di “White Out” quando erano ancora allo stato embrionale, per poi ritrovarli stravolti in fase di registrazione. Le idee che avevate in testa all’inizio come si sono evolute e quali traiettorie hanno seguito?
LB: Nessuna traiettoria precisa ma un percorso abbastanza normale: c’è stata una prima stesura di tutti i brani, nati sempre dai testi e cresciuti grazie ad un lavoro che ha previsto molto ascolto e riflessione e poca musica suonata. Poi durante la registrazione, fatta a casa di Enrico, alcune tracce sono state migliorate e altre proprio riscritte. Il tutto si è svolto in un clima di assoluta libertà e divertimento, cercando sempre di ottenere soluzioni nuove dalle limitazioni che ci eravamo imposti, ovvero niente suoni digitali e niente strumenti classici se non usati in modo anomalo.
Enrico Ruggeri: A questo aggiungi che, nei limiti del possibile, ci eravamo prefissati di registrare tutto dal vivo. Buona parte del materiale infatti è realizzato così e in più abbiamo cercato di tenere buone le prime take che registravamo di modo da preservare l’energia iniziale e non perdere la concentrazione richiesta.

I progetti che ti vedono protagonista hanno sempre una coerenza interna forte. Il concetto da cui parte tutto non è un pretesto per raccontarsi alla stampa in modo accattivante ma si riverbera anche nel modo di fare musica. Così è stato per i Bancale: si parlava di provincia, di lavoro, del concetto di frontiera, e allora ecco la sezione ritmica ricavata da lamiere, la chitarra stagnante, dei testi poetici ma pur sempre vincolati alla terra, alla concretezza. Nel caso di B/R si parla di mali interiori, intangibili, i testi sembrano essersi smaterializzati, procedono per trasmissioni sinaptiche e per associazioni non sempre di immediata comprensione. Questo cambiamento è funzionale al tipo di argomento che avete scelto di sviluppare o è dettato da una trasformazione della tua scrittura, e quindi del tuo modo di vedere le cose? E ancora: la scrittura di questo album ha risentito di particolari letture? Se sì, quali?
LB: In parte è cambiato il mio modo di scrivere, ma soprattutto il mio modo di scrivere cambia in funzione del progetto. Ciò non significa che è pianificato a tavolino, ma nemmeno che è totalmente improvvisato: nasce col primo testo da una serie di suggestioni, che poi vengono sviluppate nei testi successivi e guidate secondo una direzione che si precisa scrivendo. Nel caso di “White Out” hai descritto perfettamente quale sembianza volevo dare alle parole. Aggiungo solo che rispetto ai testi scritti per Bancale ho dato ancora più importanza al non-detto e ho scritto con l’intento di ottenere delle poesie vere e proprie, autonome, mentre per Bancale la scrittura era pensata in modo da ottenere dei testi di canzone. Non credo però di aver cambiato il mio modo di vedere le cose: nei Bancale parlavo essenzialmente del dolore, della morte e della rinascita; in B / R anche. E’ semmai cambiata la prospettiva: là era decisamente “cosmica”, qui molto più “politica”. Tuttavia un pezzo come Fiume verticale, almeno a livello testuale, poteva stare tranquillamente in un disco dei Bancale e allo stesso modo Calolzio è una sorta di antefatto di quanto viene affrontato in “White Out”. Sono invece del tutto diversi i riferimenti: per Bancale furono fondamentali Cormac McCarthy e Pavese; per “White Out” non avrei scritto quel che ho scritto senza Sanguineti, Bauman e soprattutto Don DeLillo. Alla base di entrambi i progetti però c’è la Bibbia, che viene citata tanto in Calolzio quanto in Dolore bianco.

Anche il lavoro di Enrico pare seguire questa logica di fondo. C’è un’opera di sottrazione e di scarnificazione attorno alla tua voce, laddove, solitamente, si cerca di arricchire, di andare a “riempire i vuoti”. Nei vostri pezzi quanto contano il silenzio e le pause e che ruolo occupano?
ER: La risultante del lavoro compositivo è quella che descrivi e in effetti i suoni sono cuciti millimetricamente attorno alla voce e con la voce. Durante la scrittura i nostri ruoli si sono spontaneamente definiti in modo tale da avere un continuo scambio di stimoli e di ascolto. Soprattutto al di fuori delle prove vere e proprie dove ci trovavamo spesso a ragionare sui pezzi, questo ha anche fatto sì che a volte fossero proprio i suoni a dare una direzione a Luca per l’interpretazione del testo. I silenzi e le pause sono fondamentali e per noi fungono come delle leve per innalzare il peso di una tensione sonora che altrimenti risulterebbe pervasiva e soffocante, soprattutto nei confronti della voce.

“White Out” non cerca mai la melodia, la musicalità, è anzi una sfida continua alle capacità di attenzione e alla pazienza dell’ascoltatore. Ascoltandolo, in certi frangenti confesso di essermi trovato a pensare: “Santo cielo, ma perché mi sto facendo questo?” Tutto ciò sembra molto studiato, cercato, come se si cercasse di provocare una sorta di somatizzazione riflessa. Nel corso della lavorazione, non vi è mai capitato di pensare “Ok, forse stiamo ci stiamo spingendo troppo oltre” o di temere una reazione di rifiuto da parte degli ascoltatori?
LB: Sì, a volte ci siamo chiesti se stavamo esagerando e ci siamo risposti che sì, stavamo esagerando. Ma era giusto così e abbiamo continuato a cercare l’eccesso, l’oltre, purché avesse delle forti motivazioni. D’altra parte ciò che volevamo descrivere è in tutto e per tutto esagerato, eccessivo, dis-umano. Noi ci auguriamo che chi ascolta e si chiede perché torturarsi in questo modo allo stesso tempo se lo chieda in una prospettiva esistenziale: merita di essere vissuta una vita così disumanizzante? A quella somatizzazione che in “White Out” è riflessa e s’invera nella realtà ci si può opporre? Volete rifiutare “White Out”? Va bene, ma rifiutate soprattutto questo stato di cose, opponetevi.
ER: Durante alcune delle sessioni compositive mi è capitato che mi venissero dei fastidiosi mal di testa, di solito non ne sono soggetto ma la prolungata esposizione a sibili o suoni deragliati di certo non aiuta. Anche questo è uno degli elementi che ci ha convinti a perseguire questi accidentati sentieri sonori.

Il lancio del disco è avvenuto attraverso il rilascio di alcuni video che vedevano la collaborazione di musicisti (Michele Gazich) e perfomer (Claudio Agosti). Non solo dei live, ma delle vere e proprie esibizioni a sé stanti (e forse non replicabili). Raccontacele.
LB: Ad un certo punto del cammino di “White Out” ci è sembrato interessante sviluppare due strumenti autocostruiti che stavamo usando nella scrittura dei pezzi estremizzandone l’utilizzo: la chitarra suonata dal ventilatore e la chitarra preparata, entrambe curate da Enrico. Così abbiamo pensato a quali dei brani che avevamo scritto fino a quel momento potessero essere riarrangiati e riadattati a questi due strumenti e abbiamo scelto Fiume verticale e Uomo occipitale. Poi abbiamo deciso di aggiungerci un ospite per differenziare ancora di più la cosa, un ospite che in qualche modo poteva trovarsi a proprio agio nelle due situazioni. Michele Gazich è un musicista dalla grande vibrazione verticale, Claudio Agosti uno psicoterapeuta pensante e attento. Entrambi combattono, ciascuno dalla propria postazione, una battaglia a difesa dell’umano. Infine ci è sembrato giusto e necessario che a sigillare il tutto ci fosse l’occhio di Martino Pinna, videomaker dalla grande visione. Le due videoperformance, tuttavia, non sono un unicum: per quanto riguarda l’installazione Fiume verticale c’è stata una replica l’anno scorso, solamente live, in una serata dove le chitarre-ventilatore hanno incontrato le parole di Paul Celan e la batteria di Gionata Giardina, tutto questo in occasione della Giornata della Memoria.

Da qualche anno sei anche passato dall’altra parte della barricata, fondando un’agenzia di promozione musicale chiamata Macramé che non si limita ai classici compiti di ufficio stampa. Presentaci questo progetto. Hai trovato ciò che ti aspettavi? Pensi che il mondo della musica sia sufficientemente ricettivo nei confronti delle proposte indipendenti?
LB: Prima di aprire l’ufficio stampa Macramè ho fatto per qualche anno il giornalista musicale. E’ dal 2002 che mi muovo nella cosiddetta musica indipendente italiana e quella dell’ufficio stampa era una delle esperienze che mi mancava. Dunque eccoci qui da più di due anni e mezzo. Macramè è un ufficio stampa, si occupa della promozione di dischi e festival, ma è anche qualcosa di più: prova a scovare musica che merita di essere portata alla luce e divulgata, lavora ai progetti ragionando insieme agli artisti anche su tutti gli aspetti collaterali a un disco (foto, grafiche, video etc.), se necessario e richiesto interviene anche in prima persona, come è capitato con la scrittura di alcuni testi per NoN, Moostroo e Salvo Ruolo, con il lavoro sui testi dell’ultimo disco dei Santo Barbaro e sul primo romanzo di Pieralberto Valli. In questo tempo di lavoro assai intenso abbiamo scoperto musicisti di alto livello che meriterebbero molta più attenzione: Macramè nasce proprio per questo e tenta, nel suo piccolo (siamo solo in due: io e Corrado Maffioletti), di trovare spazi, allargare nicchie, creare possibilità. Non è semplice perché la mole di musica che viene mensilmente prodotta in Italia è enorme e porta inevitabilmente alla confusione e alla distrazione. In più il radicale cambiamento delle modalità di fruizione della musica non facilita un certo tipo di dischi che hanno bisogno di più attenzione. Ma comunque ci proviamo, fino ad ora i risultati sono stati abbastanza soddisfacenti.

L’estate per un gruppo è sinonimo di concerti, festival, sagre di paese, feste. Avete previsto esibizioni? In generale quanto state portando in giro B/R e come viene accolto?
LB: Per una forte mancanza di tempo sia mia che di Enrico per ora B / R non si esibirà dal vivo, anche se in passato abbiamo fatto alcuni concerti e sono stati ben accolti. A parte ciò, la promozione del disco è andata molto bene: tante recensioni assai positive e apprezzamenti. Nonostante tutto, c’è ancora chi vuole Ascoltare e questo ci conforta.

Concludiamo con una curiosità. Cerca di spiegarci cosa sta accadendo di preciso sulla pagina Facebook della band, dove periodicamente appaiono strani video che potrebbero essere catalogati sotto l’etichetta “quando David Lynch incontra Thom Yorke nel bergamasco”.
LB: L’idea dei balletti ha due finalità. La prima è veicolare una serie di post che raccontano in breve i singoli brani (e difatti ogni video ha come sottofondo l’inizio del brano di cui si parla in quel post). La seconda è quella di creare un qualcosa di situazionista, grottesco e inquietante sul rapporto fra celebrità istantanea, social network e solitudine di massa. Non so quanto il tutto sia riuscito, ma è certo che ci siamo divertiti parecchio.

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