Jim Mannez: abbiamo tutti bisogno di sfogarci

La vita è una bestia strana e gli sbalzi che ci propone nelle situazioni concrete e nel nostro umore sono imprevedibili e possono arrivare a getto continuo, oppure non farsi vedere per molti anni. Possiamo passare un sacco di tempo con la precisa sensazione di avere tutto perfettamente in mano e poter controllare a piacimento ciò che succede, oppure possiamo finire in continue girandole che ci lasciano felici e positivi, o spiazzati e inermi, o ancora angosciati e insicuri. Per poter gestire tutta questa incertezza sono necessari nervi saldi, imperturbabilità, capacità di ragionare e capire tutte le conseguenze di ogni cosa che ci succede, per dare il giusto peso a ognuna e non esagerare, in un senso o nell’altro.

Non è sempre facile rimanere lucidi, però, perché siamo esseri umani, e ogni tanto, abbiamo bisogno di uno sfogo, abbiamo bisogno di lasciare da parte la compostezza e la razionalità, affrontando di petto ciò che ci succede come se fosse un qualcuno a cui possiamo rivolgerci, e dire tutto quello che pensiamo. Ci serve per lasciar andare la pressione interna e tornare, così, ad avere un bilanciamento tra raziocinio e istinto. Sono momenti che, di solito, ognuno vive nel proprio privato, e che, per questo, non è affatto facile rappresentare in musica, anche perché, se sai che stai facendo qualcosa che gli altri dovrebbero ascoltare, sei inconsciamente condizionato.

Ogni tanto, però, qualcuno ci riesce a fare un disco che rappresenti al meglio questo stato di cose, e, quando succede, è un toccasana per tutti, perché riconoscere un aspetto così intimo in qualcosa che stiamo ascoltando non può che farci bene. Per fortuna, almeno per il 2023, uno di questi dischi ce l’abbiamo, ed è quello di Jim Mannez, al secolo Andrea Manenti, in passato co-frontman dei bergamaschi Le Madri Degli Orfani. Il Nostro, infatti, ha confezionato 12 canzoni il cui contenuto musicale è legato alle declinazioni più viscerali del rock n roll, perché oltre a quello in senso stretto troviamo il folk, il country e la psichedelica West Coast, oltre a rapide escursioni in territori normalmente meno battuti ma che mantengono lo stesso tipo di intensità emotiva, come i balli balcanici e il free jazz.

Questo impianto musicale è, in realtà, un veicolo per fare ciò che ho descritto sopra, ed è, quindi, accompagnato da una vocalità ruvida e spesso arrabbiata e testi senza compromessi in cui non ci si limita all’introspezione, se no non servirebbe a sfogarsi, ma nei quali l’analisi di ciò che succede dentro se stessi viene fatta seguire dalla raccolta dei risultati di quest’analisi e dal loro lancio fuori dalla nostra interiorità, senza alcuna compostezza, in modo che essi siano disponibili a tutti nella forma che nasce spontaneamente da questo modo di sfogarsi.

Già le prime parole del disco fanno capire il tipo di tematiche trattate e l’approccio a esse. “In questo mondo di persone fragili, anch’io, fragile, mi trovo spesso nel ruolo del forte, e ciò mi fa paura, a volte molta paura”. Andando avanti, troviamo molti passaggi davvero significativi, nei quali l’autore continua a mettersi a nudo nel senso sopra specificato, come ad esempio cantando “A volte spero di non innamorarmi più, perché che senso avrebbe senza te dall’altra parte”, o “Scegliere è un po’ morire, ogni volta che lo si fa”; altre volte, invece, lo sguardo si posa su ciò che succede al di fuori, con situazioni quali “Per le strade di Milano con la maschera antigas, per giardini di cemento e vestiti di lillà” o “Sedicenni col santino del Duce che si lamentano di non poter fare ciò che gli va” che non possono non scatenare reazioni interiori forti. Uno dei punti di forza di questo disco, poi, è che la voglia di sfogarsi si spinge fino a immaginare veri e propri momenti di azione, come “Suono e voce dei cretini, tutti insieme a fare festa, noi cretini non lo siamo, ma alla festa ci adattiamo”, e davvero ci sono volte in cui non si può fare altro, è proprio una questione di istinto di sopravvivenza, e lo stesso vale, all’opposto, quando succede che “Aspetti il tuo cuscino e la faccia è giù, sbavando del catarro sul lenzuolo blu”.

Certo, rendere efficace e credibile un realismo così crudo non è affatto facile, perché ci vuole un attimo ad andare fuori giri e a suonare retorici o auto indulgenti. Invece, queste canzoni rappresentano un pieno compimento della missione che l’autore si è posto, e il merito non va solo ai testi, ma anche alla capacità della parte musicale di mantenere un ottimo equilibrio tra genuinità e ordine strutturale. Le canzoni, oltre a godere della varietà stilistica specificata sopra, scorrono via sempre perfettamente grazie a un suono caldo e a una cura degli arrangiamenti che conferisce sfumature in grado di arricchire lo scheletro dei brani nel modo giusto, ovvero esaltandone l’impatto emotivo. Può capitare che la singola canzone abbia un suono più essenziale, ed è giusto così in quei casi, e poi, invece, si uniscono ulteriori linee strumentali, tra altre chitarre, tastiere e fiati e avviene quel magico fenomeno per cui l’ascoltatore ha una rappresentazione tremendamente reale di ciò che viene raccontato.

Mi sono dilungato, ma non potevo fare altrimenti: questo è un disco non solo perfettamente riuscito, ma capace di soddisfare un bisogno che difficilmente viene anche solo preso in considerazione da chi fa musica. Una volta, quando si voleva fare critica per forza in modo colto, si sarebbe detto che è un disco necessario; adesso, dico solo che va assolutamente ascoltato e fatto proprio, perché probabilmente arriverà per tutti un momento della vita in cui questo ascolto potrà aiutarci.

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