Intervista: Elisa Begni

Con What Remains, Elisa Begni firma il suo debutto solista dopo l’esperienza con i Bluedaze, dando vita a un viaggio sonoro e interiore che attraversa silenzi, abissi e rinascite. Tra dark folk, jazz nordeuropeo e ascolto profondo, l’artista esplora la trasformazione come atto di vulnerabilità e consapevolezza.

Le abbiamo fatto qualche domanda per cercare di capire meglio come è nato e si è sviluppato questo ‘viaggio’.

IR: What Remains segna il tuo debutto solista dopo l’esperienza con i Bluedaze. Cosa ti ha spinta a intraprendere questo percorso personale?

EB: C’è stato un momento di grande cambiamento nella mia vita, non troppo tempo fa, in cui ho sentito il bisogno di mettere a fuoco delle cose che si stavano muovendo fuori e dentro di me. La musica è sempre stata uno strumento di autoanalisi molto potente, per me, mi ha sempre aiutata ad ascoltarmi e a fare ordine. Così ho iniziato a scrivere. Ma i brani che venivano fuori erano sempre più “miei” e sempre meno “dei Bluedaze”, sia sul piano musicale che su quello dei testi e delle tematiche trattate. E allora ho pensato che forse quei brani sarebbero dovuti uscire a nome mio. In principio l’idea mi ha letteralmente terrorizzata (e onestamente non ci ho ancora fatto pace del tutto) ma poi ho pensato che a volte quello che ci spaventa di più è proprio quello di cui abbiamo più bisogno. E così eccoci qui.

IR: L’album è descritto come un “viaggio dell’eroe” interiore. Qual è stata per te la tappa più significativa di questo cammino musicale ed emotivo?

EB: Quello del “viaggio dell’eroe” è proprio il modello narrativo che ho usato per scrivere What Remains. C’è un equilibrio iniziale che si spezza, la prima soglia o morte, la caduta nell’abisso, le prove da affrontare e il punto più oscuro del viaggio. Segue poi la seconda soglia/morte e il ritorno in superficie, dove provare a ricreare un nuovo equilibrio, grazie anche alle consapevolezze maturate lungo il percorso. Quindi diciamo che ogni tappa ha un suo ruolo specifico. Se dovessi scegliere, credo che sceglierei il momento della resa. Quando, nel punto più oscuro del viaggio, senti di non avere più né armi né strategie di sopravvivenza da sfoderare e decidi di lasciare la presa. Nel mio caso, è proprio lì che inizia – sempre – la trasformazione.

IR: Il disco nasce dall’influenza del dark folk, del jazz nordeuropeo e degli studi sul Paesaggio Sonoro di Murray Schafer. Come sei arrivata a intrecciare questi mondi così diversi?

EB: In quel periodo di grande cambiamento di cui parlavo prima, mi sono sentita smarrita. Non mi riconoscevo più nelle cose che facevo, in alcuni aspetti di me stessa e nella musica che avevo sempre ascoltato. Cosi me ne sono stata in silenzio per un po’ e ho ascoltato quello che mi circondava. Ho studiato molto, anche: filosofia, meditazione e musica, principalmente jazz. Ho iniziato a interessarmi all’influenza che la musica e i suoni hanno sulla nostra vita, per capire quanto possano agire in negativo, ma anche quanto possano portare sollievo e benessere. Lì ho incontrato gli studi di Murray Schafer sul Paesaggio Sonoro e quelli di Pauline Oliveros sul Deep Listening. E ho sentito anche il desiderio di fare un po’ di ricerca in tutti quei contesti dove la musica non ha solo la funzione di intrattenere, ma anche quella di curare o di fare comunità.

Così mi sono avvicinata al mondo della musica tradizionale e popolare e a tutte quelle artiste e artisti della contemporaneità che si ispirano a quel modo di scrivere e interpretare la musica, scoprendo che nel mondo del dark folk ce ne sono molti – ottimi – esempi. Agnes Obel e Lankum, sono i primi nomi che mi vengono in mente, ma la lista è lunga.

IR: Il singolo “Am I?” che anticipa l’album, in che modo rappresenta l’essenza del progetto e cosa racconta di te?

EB: “Am I?” è uno dei brani nati con più rapidità. Nel giro di mezz’oretta la sua struttura musicale e di testo era completa. Anche l’assolo di voce (filtrata e distorta) che si sente nella coda strumentale, è in realtà un’improvvisazione uscita per caso in studio di registrazione. Credo che rappresenti bene il disco perché unisce le sue due anime: quella più melodica, riconducibile alla forma canzone, e quella invece più meditativa e dilatata. Racconta di quel momento di quiete e di consapevolezza che a volte si lascia trovare in mezzo al caos che sono le nostre vite. Non è una catarsi né una risoluzione, è più una calma fragile. Un attimo sospeso in cui tutto sembra essere in equilibrio.

IR: Il rapporto con Francesco Sergnese sembra essere stato centrale nella creazione del disco. Come avete lavorato insieme sugli arrangiamenti e sulla produzione?

EB: Francesco, oltre ad essere un ottimo producer e sound designer, è anche un amico inestimabile. Suoniamo insieme nei Bluedaze e spesso lavoriamo insieme anche in diversi progetti sociali e culturali, sempre legati alla musica.

Abbiamo quindi molte occasioni per confrontarci e allinearci sui rispettivi percorsi di ricerca e di vita. Quando ho scritto i brani di questo disco (quasi tutti col pianoforte o l’Harmonium) avevo molto chiaro come avrebbero dovuto suonare. Quindi sono andata in studio da Francesco e glieli ho fatti sentire. Poi abbiamo parlato a lungo del paesaggio sonoro e delle atmosfere che volevamo creare (considera che in quel momento c’erano solo gli accordi al piano, la linea vocale e io che spiegavo “qui ci vorrei questo, qui ci mettiamo quell’altro, ecc”). In questa fase, quindi, la sensibilità e le idee di Francesco sono state determinanti per tradurre in musica le mie suggestioni e anzi, spesso è riuscito a rendere le cose anche meglio di come le avevo pensate. In What Remains c’è moltissimo di suo e gliene sono molto grata.

IR: La dimensione del Deep Listening di Pauline Oliveros è molto legata all’ascolto profondo e alla percezione del silenzio. Come hai incorporato questa pratica nella scrittura dei tuoi brani?

EB: Il silenzio per me è estremamente prezioso: mi rigenera, mi aiuta a trovare equilibrio. Purtroppo però il mondo contemporaneo è molto ostile al silenzio, bisogna veramente andarlo a cercare e spesso non lo si trova nemmeno. What Remains nasce proprio da questa ricerca e da molte sessioni di ascolto profondo praticate in natura.

Con Francesco abbiamo lavorato per provare a rendere il silenzio anche negli arrangiamenti, cercando di farlo emergere tra una nota e l’altra, come un elemento attivo, trattandolo come una sorta di voce o di strumento in più, che facesse da controcanto al suono. Una delle (poche) regole che ci siamo dati in partenza è stata: ogni suono deve emergere dal silenzio e al silenzio ritornare. Volevamo che quel passaggio di stato fosse nitido e consapevole.

IR: Nel disco suoni il pianoforte e presti la tua voce: quanto conta per te la fisicità dello strumento e la vulnerabilità della voce in questo progetto?

EB: Moltissimo. Tutto quello che ha a che fare col corpo e con la dimensione fisica delle cose, mi affascina terribilmente e allo stesso tempo mi respinge. Perché il corpo (e la voce, che ne é sempre testimone) è ciò che mi espone, che si presta al giudizio e che è soggetto a fluttuazioni imprevedibili. Cambia nel tempo, deperisce, si ammala, invecchia. Insomma tutte cose da cui non si può prescindere, ma con le quali faccio fatica a fare i contri. In questo disco, quindi, ho voluto provare un approccio per me inedito, scrivendo principalmente al pianoforte, strumento che amo da sempre ma che ho iniziato a suonare solo in tempi recenti. Mi sono lasciata guidare dalla fisicità del suono, da come si propagava nella stanza, dalla vibrazione che produceva nel mio corpo. E poi ho provato con la voce a stare in quell’ambiente sonoro e vedere cosa succedeva. Mi sono sentita molto libera, mentre scrivevo. E’ stato sfidante ma anche molto bello.

IR: Hai già delle date live, come pensi di portare What Remains in tour? Con una dimensione più intima o con un respiro più corale e scenico?

EB: Sì! Grazie a Savana Concerti ci sono già alcune date per questo autunno e il calendario è in costante aggiornamento. Il 12 ottobre ho aperto il meraviglioso concerto di Penelope Trappes al Teatro Linguaggicreativi di Milano.

Il 25 ottobre sarò al Circolo Gagarin di Busto Arsizio con Giulia Impache, mentre il 22 novembre suonerò all’Arci Dallò in provincia di Mantova e il 23 al Red Zone Art Bar in provincia di Verona.

Sul palco siamo in 3: io, Nicolò Cagnan alle percussioni e Francesco Sergnese alla chitarra e ai synth. Il live è pensato per essere un’esperienza intima e, spero, immersiva. Mi piacerebbe che le persone in ascolto si sentissero libere di viverla come meglio credono.

In piedi, sedute, sdraiate. Vorrei che fosse un’occasione per dedicarsi del tempo e ascoltarsi un po’.

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