Dischi vari – ottobre/novembre 2025
I due mesi che vanno a concludersi hanno regalato a noi appassionati di musica italiana tantissime nuove uscite di qualità, sia fra i nomi più noti che fra quelli ancora meno conosciuti. Una vera e propria invasione di ottima musica, che ci rende davvero molto contenti. A un certo punto ho pensato che raccogliere 12 dischi in una sola pagina fosse troppo, ma davvero almeno su tutti questi avevo proprio voglia di dire la mia, e non sono nemmeno tutti quelli belli di un bimestre davvero ricchissimo, un periodo che merita di essere ricordato, e spero che, con questa mia raccolta di pareri, io possa dare il mio contributo a mantenere viva la memoria.

UMBERTO MARIA GIARDINI – Olimpo Diverso (La Tempesta)
A soli due anni dal bellissimo Mondo E Antimondo, arriva questo sesto album di Umberto Maria Giardini, con il quale l’artista marchigiano alza l’asticella in termini di dettagli negli arrangiamenti e attenzione all’interazione fra gli elementi melodico, vocale e sonoro delle canzoni. È un lavoro al quale è necessario dedicare la massima attenzione, proprio perché ognuno dei tre aspetti citati acquisisce completezza solo se ci si concentra sull’incastro con gli altri due. In un’epoca nella quale è ormai la normalità ascoltare musica distrattamente e mentre si fa altro, Giardini sfida l’ascoltatore a estraniarsi da tutto per apprezzare una tipologia di impatto diversa rispetto a quella che ha caratterizzato la sua lunga carriera, ma non certo meno stimolante. Vengono, infatti, lasciate da parte l’incisività e l’abrasività emotiva che ben conosciamo a favore di costruzioni più complesse e cesellate, che probabilmente rischiano di colpire meno al primo ascolto, ma che, già al secondo, svelano tutta la propria bellezza, a patto che, come detto, i passaggi siano accompagnati dal 100% dell’attenzione da parte di chi ascolta. Se ciò avverrà, sarà molto difficile non farsi stregare da queste canzoni, perché non si tratta di un ascolto difficile, ma semplicemente è richiesto un approccio da parte del pubblico che ormai è sempre più raro. Il consiglio, lo si sarà capito, è di fare come vuole Umberto, ovvero di fregarsene di tutto per 43 minuti alla volta e lasciarsi portare in alto da queste eccellenti creazioni musicali.

EDDA – Messe Sporche (Woodworm)
Artista da sempre in continua trasformazione, Edda torna con un disco rock, decisamente carico e sporco. Messe Sporche è composto da nove canzoni che sono altrettante fucilate secche, senza fronzoli e basate sulle suggestioni derivanti dall’interazione fra saturazioni e chitarre di impronta rock n roll. Le melodie sono sfuggenti e poco definite come avveniva all’inizio della carriera solista di Edda ma l’andamento dei brani è molto più regolare e fluido e l’abrasività sonora ha in realtà un fascino intrigante e in grado di stuzzicare subito i sensi di chi ascolta. La varietà sotto l’aspetto ritmico, nel quale si passa da momenti frizzanti ad altri più controllati, ad altri ancora quasi marziali, ad altri, infine, squadrati e martellanti, è un fattore importante per far sì che il disco si ascolti con interesse e trasporto dall’inizio alla fine. L’interpretazione vocale e i testi del protagonista non si discostano da ciò che conosciamo ormai molto bene e, ovviamente, il suo lato punk è particolarmente esaltato dal contesto musicale. In definitiva, ascoltare un nuovo album di Edda è sempre un’esperienza unica nel suo genere e chi non lo fa si perde indubbiamente qualcosa; qui non si fa eccezione e questo nuovo capitolo del repertorio dell’artista milanese è rilevante esattamente come tutti gli altri.

C+C=MAXIGROSS – Nuova Era Oscura vol. 2 (Dischi Sotterranei)
“Dopo una notte buia e densa, come l’epoca opprimente che stiamo vivendo, la luce del mattino disorienta e confonde”. Così il collettivo veronese mette in relazione questa seconda parte del proprio lavoro la cui prima metà è uscita a marzo, sempre di quest’anno. E, in effetti, il suono di questo volume 2 è più colorato e, al contempo, maggiormente enigmatico, con la sezione ritmica che gioca un ruolo ancora più importante, visto che non si limita a tenere il tempo ma conferisce ulteriori sfumature al ventaglio sonoro e si insinua nel lavoro degli altri strumenti in modo da rendere il risultato finale quasi come un prisma, ovvero caratterizzato da tante piccole spigolature che fanno parte della sostanza di ciò che ascoltiamo e non solo della sua forma. Coerentemente, ci sono anche un uso della voce secondo cui essa non si staglia sugli altri strumenti, ma si mescola senza protagonismi, e uno stile più sfuggente nei testi, con parole che non raccontano storie definite ma servono quasi come rafforzativo di ciò che viene suggerito dall’ascolto dei suoni. Queste canzoni, in definitiva, risultano, come già accennato un perfetto esempio di forma che si fa sostanza, di ricercatezze tecniche mai fini a sé stese ma sempre al servizio di una visione chiara e coerente.

THE NIRO – La Nascita (Esordisco)
The Niro aveva lasciato passare ben nove anni senza pubblicare un disco, prima di Un Mondo Perfetto, uscito nel 2023. Ora, invece, ecco già un altro album, chiaro segno di un’ispirazione ritrovata e della voglia irrefrenabile di sfruttarla. L’artista stesso, presentando il lavoro, chiarisce subito che è figlio del qui e ora, e una delle conseguenze è l’utilizzo, per la prima volta, sia dell’italiano che dell’inglese, visto che ogni canzone rappresenta la fotografia di un momento vissuto, quasi sempre in prima persona e, si sa, quando si fotografa, la natura del soggetto è al di fuori del nostro controllo. Certo, alla prova dell’ascolto si nota una certa discrepanza tra la rotondità dei brani in italiano e la spigolosità di quelli in inglese, però, onestamente, chi se ne importa, dato che le canzoni sono tutte belle, intense e trascinanti, con arrangiamenti sempre ben curati ma che, non per questo, tolgono forza espressiva, anzi, valorizzano lo spettro emotivo che caratterizza la singola canzone, tra necessità di evasione, esigenza di fermarsi per ricaricarsi e ripartire, ammissione delle difficoltà vissute come forma di autodifesa, contemplazione di ciò che ci capita davanti agli occhi quando è in grado di scatenare reazioni non comuni. The Niro, con questo lavoro, trova la perfetta quadratura del cerchio tra rock e cantautorato, tra buio e luce, tra inquietudine e consapevolezza, per un risultato che merita di essere ascoltato e riascoltato.

AN EARLY BIRD – Carved In Quiet (autoprodotto)
Dopo aver pubblicato un album all’anno per ben quattro anni consecutivi tra il 2020 e il 2023, An Early Bird lascia passare un po’ più di tempo per questo suo nuovo lavoro. Il cantautore campano lo presenta semplicemente affermando di aver voluto catturare l’essenza delle canzoni e degli strumenti acustici. La prova dell’ascolto conferma quanto dichiarato, nel senso che, rispetto al passato, il suono è ancora più spoglio e quasi rustico. Prima c’era sì una certa essenzialità sonora, ma l’impronta era caratterizzata da dolcezza e morbidezza, invece qui lo stile è, a suo modo, grezzo e immediato. Sembra quasi di ascoltare una registrazione dal vivo, con gli intrecci tra chitarra, piano e armonica, e quelli tra la voce del protagonista e quelle secondarie che conferiscono calore e senso di intimità. Anche il fatto che, dal punto di vista chitarristico, ci si basi meno su arpeggi precisi ma si punti a una modalità meno ricercata, con tanto di dita che strusciano sulle corde quando bisogna cambiare accordi, dà proprio una sensazione di raccoglimento e di caldo realismo. È sempre bello quando un artista esperto cerca questo tipo di naturalezza, perché, per l’ascoltatore, è una sensazione allo stesso tempo che rinfresca l’ambiente e scalda il cuore. Un lavoro, in definitiva, di grande autenticità e decisamente evocativo.

AMALFITANO – Sono Morto x 15 Giorni Ma Sono Tornato Perché L’Amore È (Flamingo)
Terzo album per l’attuale progetto di Gabriele Mencacci Amalfitano, già chitarrista dei bravissimi Joe Victor. Il cantautore romano mette in scena una raccolta di canzoni la cui idea comune è quella di non lesinare su niente, tra immediatezza melodica, massimalismo sonoro, espressività vocale e alto profilo nei testi. Il pregio di questo lavoro è che tutto scorre in modo fluido senza che l’autore faccia assolutamente pesare la gran quantità di ingredienti usati. Si mette su il disco e si viene piacevolmente investiti da quest’ondata in cui c’è praticamente di tutto: soluzioni sonore e ritmiche ad ampio spettro, stili melodici ora più spigolosi, ora più rotondi, ma sempre e comunque di forte presa su chi ascolta, un timbro vocale che svaria sia tra ruvidezza e pulizia che tra snellezza e robustezza, testi che ricordano il passato, o osservano il presente, oppure immaginano il futuro, tutto sotto diversi punti di vista, tra l’interiorità dell’autore, le vicende di persone a lui vicine e il mondo nel suo complesso. In definitiva, Amalfitano spara una nutrita serie di colpi e centra invariabilmente il bersaglio, per un ascolto che riempie ogni possibile aspettativa con coerenza stilistica, gusto e emotività.

MARCO GIUDICI – Trovarsi Soli All’Improvviso (42 Records)
Cinque anni dopo Stupide Cose Di Enorme Importanza arriva il secondo album a proprio nome di uno dei musicisti e produttori più noti in tutto il panorama musicale indipendente italiano. Se, per il debutto, parlavamo di un “suono gentile ma allo stesso tempo ricco di dettagli” e di una “strumentazione molto ampia che non vede la presenza delle chitarre”, qui possiamo dire che è quasi tutto il contrario, nel senso che le chitarre giocano un ruolo di primo piano, assieme alle tastiere, e il suono è scarno e incisivo. Rimaniamo comunque dalle parti di un modo di fare canzoni che punta sull’introspezione e sulla quiete e che, musicalmente, potrebbe essere vista come una rivisitazione in chiave emo della classica idea di cantautorato. Si percepiscono, infatti, asprezza e polverosità che rendono molto concreti gli stati d’animo raccontati nei testi. In essi si parla, come sottolinea l’autore stesso presentando il lavoro, di perdita e distacco, e soprattutto dello stato di incertezza e sospensione che lasciano, della brutta sensazione di non sapere davvero come proseguire quando si deve venire a patti con un addio. È un ascolto con il quale viene molto facile empatizzare e, se ci si trova davvero in una situazione come quella affrontata nelle canzoni, può essere utile rendersi conto che non dobbiamo vergognarci o sentirsi inferiori se ci sentiamo persi in momenti come questi, perché è assolutamente normale e da esseri umani. In definitiva, questo è un disco di rara genuinità emotiva e molto ben fatto artisticamente. Un grande ritorno che merita attenzione.

GRAZIAN – Grazian (autoprodotto)
Il cantautore veneto torna al suo progetto solista dopo diversi anni e senza, comunque, aver mai smesso di fare musica, vedi, ad esempio, l’esperienza con Torso Virile Colossale. Per questo nuovo inizio, l’autore ha scelto di presentarsi solo col proprio cognome, e l’ascolto di queste nuove canzoni fa capire senza molte esitazioni il perché di questa scelta. Pensando, infatti, ai precedenti quattro album, si notano elementi riconducibili a tutti questi dischi e, allo stesso tempo, è chiara l’idea che questa sorta di riassunto serva da base di partenza per un’ulteriore evoluzione nel percorso artistico. Tra le rotondità un po’ psichedeliche di L’Età Più Forte, il nerbo controllato di Armi, il melodramma gentile di Indossai e il disincanto retrò di Caduto, i nuovi brani ripercorrono, a turno, tutte queste fasi e le rivisitano con arrangiamenti più ricchi, dettagliati e capaci di dare maggior ariosità e immediatezza al suono, grazie anche al contributo di musicisti importanti come Davide Andreoni, Enrico Gabrielli e Emanuele Alosi, i quali, tra le altre scelte, mettono in campo l’utilizzo di tastiere e strumentazione digitale e un ampliamento del ventaglio ritmico. Anche i testi mettono in mostra un respiro più ampio e un impatto più diretto, con un linguaggio tanto alto quanto concreto e la capacità di affrontare tematiche importanti come il parallelismo tra una storia d’amore e l’industria discografica nella loro condizione di essere entrambi giganti dai piedi d’argilla, la giustapposizione tra l’esperienza millenaria del genere umano e l’intensità delle prime esperienze importanti per ogni essere umano, la difficoltà di comprendere appieno le conseguenze di determinate nostre scelte fatte d’impulso. Si tratta di un disco non solo completo, ma anche, e soprattutto, di ottima fattura, con un gusto nelle idee e nelle scelte davvero fuori dal comune e una ragguardevole profondità musicale e tematica.

MESSINESS – Messiness (StoneFree Records/Tarla Records)
Messa in stand-by l’esperienza come Johann Sebastian Punk, Massimiliano Raffa aveva già fatto sapere da tempo di aver formato i Messiness con altri musicisti noti come Rosario Lo Monaco, Giovanni Calella e non solo. Ora, è possibile ascoltare il debutto sulla lunga distanza di questa band che, in realtà, ha già molta esperienza e consapevolezza, cosa che si nota immediatamente e per tutta la durata del disco. Il quintetto di stanza a Milano riesce a mettere assieme un miscuglio di riferimenti tanto ambizioso quanto organizzato: i lati più giocoso e decadente del britpop, la psichedelia beatlesiana, i groove in stile funk e il folk mediterraneo sono gli aspetti più presenti, e meno frequentemente intervengono, più come fonte di arricchimento, fughe prog, spolverate free-jazz, incursioni urban-rock e suggestioni chamber-pop. Lo stile melodico e il timbro vocale sono gli elementi che, più di ogni altro, fungono da collante, per brani che uniscono, ogni volta con declinazioni diverse, sfrontatezza e decadenza, altezzosità e fatalismo, classicismo con momenti citazionisti e futurismo. Un lavoro assolutamente entusiasmante e di cui andare orgogliosi come italiani, anche se le etichette che lo pubblicano sono austriaca e turca. Benvenuti, Messiness, speriamo che siate qui per restare.

TUM – The Dark Side Of Minigolf (Niet Records)
Ogni cosa ha il proprio lato oscuro, anche un’attività innocente come il minigolf. Questo sembra volerci dire Tum, al secondo disco solista dopo un lungo trascorso da leader dei Pocket Chestnut. Il cantautore vigevanese, infatti, ci propone una manciata di canzoni caratterizzate da suoni e interpretazioni vocali che si muovono tra asprezza, ruvidezza, spigolosità e attitudine in-your-face. La veste dei brani può essere ora elettrica, ora acustica o semiacustica, e il ritmo può essere tra l’assente, il controllato e l’incalzante, ma le caratteristiche di cui sopra non cambiano e rendono l’ascolto sempre interessante, sia per la coerenza in termini di approccio, sia perché una bella dose di onestà e di situazioni raccontate a viso aperto è sempre la benvenuta per chi ascolta la musica cercandone sempre il lato emotivo. Per concretizzare al meglio una visione come questa, Tum non poteva che rivolgersi a musicisti e a un produttore che lo conoscono molto bene, tutta gente che fa musica da una vita, e infatti i batteristi Matteo Baldrighi e Paolo Merlini, il chitarrista Stefano Baleria e il perenne compagno di viaggio Gabriele Galbusera si sono calati perfettamente nel contesto dando la giusta vitalità ai brani e facendo emergere al meglio il loro spettro emotivo, e lo stesso ha fatto William Novati alla produzione artistica e anche lui alle chitarre. Anche le due cover presenti, ovvero Country di Porches e Old Friends dei Pinegrove, sono un chiaro segno di un album guidato da idee ben definite e dalle quali non si transige, perché entrambe non sono semplici riletture, ma vere e proprie interpretazioni molto personali. Se cercate un disco accomodante e consolatorio, cambiate strada, ma se vi piace sentirvi dire le cose come vanno dette, se non altro per sfruttarle in chiave catartica, questo ascolto fa per voi.

EMANUELE COLANDREA – Due (29Records)
Dopo l’ottimo ritorno della scorsa primavere con Uno, Emanuele Colandrea decide di continuare a lavorare in solitaria (da qui il titolo del disco precedente) ma con un’idea nuova che giustifica il nome di questo lavoro. Le tracce, infatti, sono dieci, ma i testi, in realtà, sono cinque, ognuno di essi proposta in due (appunto) versioni diverse. Parlando di Uno, avevamo messo in risalto “un suono e un timbro vocale che puntano sulla ruvidezza e sul calore”, “l’abilità letteraria nei testi, di alto profilo e fortemente evocativi” e “melodie presenti ma volutamente poco definite”, e queste caratteristiche sono presenti anche in queste nuove canzoni, mentre gli elementi di novità sono rappresentati da una maggior varietà negli arrangiamenti, con pianoforte e tastiere molto più presenti e un maggior accento sulle armonie strumentali, e testi meno disincantati e più diretti, con una riuscita alternanza fra storie raccontate da un punto di vista da narratore esterno e altre che, invece, espongono stati d’animo che arrivano direttamente dall’autore. L’ascolto risulta sempre intrigante e coinvolgente grazie a un’ottima ispirazione compositiva, a un modo di suonare dinamico e azzeccato e a una parte vocale, intesa anche come testi, che non smette di essere sempre tra le più riconoscibili di tutto il panorama musicale italiano. E l’idea della doppia interpretazione di ogni testo è riuscitissima, con quelle della prima metà più attente al lato estetico e le seconde più scarne e viscerali. È bellissimo trovare uno degli autori più sottovalutati della Penisola così in forma, e non si vede l’ora di andare a vederlo dal vivo, visto che ha già annunciato diverse date per il 2026.

PROBLEMIDIFASE – Tutto Quello Di Cui Avevamo Bisogno (Sputnik Music Group/Mille Piccoli Cieli/Altafonte)
Primo lavoro sulla lunga distanza per questo collettivo (tra autori, interpreti, produttori e tecnici di studio, al disco ha lavorato una decina abbondante di persone) attivo dal 2021. Va da sé che un lavoro con coinvolta così tanta gente raccoglie influenze e riferimenti di ogni tipo, tra ruvidezze di stampo emo, introspezione da cameretta, leggerezza tra sogno e ballo, strizzatine d’occhi alla bossa, e così via, queste quattro declinazioni sono presenti in altrettante canzoni all’inizio del disco ma si potrebbe andare avanti a elencarne una per ognuno degli altri brani. Il bello è che tutta questa varietà è ben veicolata all’interno di una chiara idea di pop autoriale dalle melodie vellutate e dai testi caratterizzati dall’ammissione delle proprie difficoltà allo scopo di superarle, o almeno di provarci. Il disco, così, scorre benissimo per tutta la durata e fa pensare a chi ascolta che, semplicemente, ce ne vorrebbero di più di ascolti così, mai uguali a sé stessi e fortemente coerenti allo stesso tempo. Più facile a dirsi che a farsi, ma intanto i problemidifase l’hanno fatto, e noi ci possiamo godere un risultato coinvolgente e che non stanca mai.


