Interview – Roberto Salis
Fuori dal 3 novembre “Fotosintesi”, il nuovo EP di Roberto Salis. Tre canzoni che mostrano tutte le capacità del musicista sia dal punto di vista testuale che di sound.
Dall’ironia di “Rido,” alla critica tagliente di “Yes Man”, fino alla sospensione ipnotica di “Change (In The Air)”. Ogni elemento, chitarre ritmiche e soliste, sintetizzatori, basso e voce, è suonato dallo stesso artista. Il risultato è un lavoro radicalmente personale e coerente, capace di fondere poesia, sperimentazione e groove.
Il sound riesce ad essere creativo e unico. Ci si diverte tra pop e blues in “Yes Man”, passando per uno stile più da cantautore pop in “Rido” per poi sorprendere con l’elettronica di “Change (In the Air)”. Roberto Salis è un artista poliedrico che nel corso del tempo ha saputo attualizzare ascoltando le novità, ma senza perdere il suo stile unico.
Volevamo conoscerlo meglio.
Ciao Roberto, come è nata l’idea di questo nuovo EP “Fotosintesi”?
Direi che “Fotosintesi” è nato come nascono molte cose nei momenti di trasformazione. Sentivo l’esigenza di realizzare un progetto che restituisse ciò che ho assorbito negli ultimi anni — il bello, il difficile, il caotico, le ombre, le delusioni, le paure, la gioia e l’intenso lavoro svolto — rielaborandolo in una forma nuova.
Il concetto di fotosintesi rappresenta perfettamente questo processo: prendere ciò che si è vissuto e trasformarlo in qualcosa di attuale, senza perdere la propria identità e mantenendo sempre chiaro il proprio passato. Come ricordava Pierangelo Bertoli in A muso duro:
“Con un piede nel passato e lo sguardo dritto e aperto nel futuro.”
L’EP nasce proprio da questa spinta: il desiderio di far crescere qualcosa anche quando la luce sembra scarseggiare. È composto da tre brani che raccontano un percorso di evoluzione personale — anzi, di crescita — la necessità di ritrovare respiro e la volontà di non temere il cambiamento… o, più semplicemente, di avvicinarsi sempre di più alla versione più autentica di sé.
C’è un brano dei tre a cui sei più legato? Se sì, qual è?
Direi di essere legato a tutti e tre i brani dell’EP, perché ognuno racconta un pezzo del percorso che ha portato a Fotosintesi.
Ma se devo scegliere, scelgo “Rido”.
È il brano in cui ho messo più verità, più cicatrici. Nasce da quella risata muta che ti esce quando sei davvero al limite — quando hai superato la frutta, il caffè, l’amaro e tutto ciò che viene dopo. Quando ti rendi conto che certi rapporti e certe persone non hanno alcuna intenzione di crescere, di ascoltare, di mettersi in discussione. Alcuni pensano solo al proprio orticello, ma da te pretendono sempre tutto.
E a un certo punto smetti di giustificarti: osservi, capisci, ti svegli.
Quella risata non è una difesa: è un istantanea della realtà.
Il paradosso di “Rido” è proprio questo: suona leggero, quasi spensierato, e all’inizio non ti accorgi del peso del testo. Ti ci avvicini senza sospetto, poi scopri che sotto la superficie c’è il resto: dolori, assenze, molta solitudine, giustificazioni infinite per colpe che non hai, il tentativo disperato di comprendere gli altri che — se non fai attenzione — diventa una forma elegante di manipolazione verso di te.
Finché non apri il vaso di Pandora e realizzi, con una chiarezza improvvisa, che basta.
È come trovare la chiave giusta dopo anni di porte sbagliate.
“Rido” per me è resistenza pura.
È il modo in cui sono rimasto in piedi mentre tutto il resto cedeva.
È il brano che mi ricorda esattamente da dove vengo e cosa mi sono portato dietro.
Ed è la prova di ciò che credo davvero: che la musica non è solo un mestiere, è l’antidoto, il disinfettante sulle ferite, la luce che ti rimette in carreggiata.
Forse è per questo che gli sono legato: perché quella risata — dura, bruciante, senza sconti — è stata ciò che mi ha salvato la pelle.
E qual è quello che ha avuto una genesi più ostica?
Direi che il brano con la genesi più ostica sia stato “Change (In The Air)”.
Non perché non sapessi cosa volessi raccontare — il sentimento da cui nasceva era chiarissimo — ma perché trovare la forma giusta senza tradirne l’essenza si è rivelato complesso.
L’idea era costruire tutto su un solo accordo: un punto fermo da cui, paradossalmente, si muove tutto. Una sorta di pendolo emotivo.
Un po’ come il pendolo di Foucault: non fa nulla di spettacolare, si limita a oscillare mentre la Terra gira. Una calma apparente che, però, rivela un cambiamento inevitabile.
Volevo una voce quasi non cantata, più parlata, nello stile degli artisti che amo profondamente: Lou Reed, Paolo Conte, Leonard Cohen e tanti bluesman che somigliano più a profeti che a cantanti.
Gente immobile, scolpita, eppure capace di descrivere un mondo intero che si muove attorno a loro.
Anche nel video cercavo la stessa cosa: un’immobilità che non è staticità, ma un modo per rendere visibile ciò che si muove nell’aria.
La difficoltà maggiore è stata trovare l’equilibrio tra minimalismo e profondità: lasciare respirare il brano senza farlo collassare nella monotonia, mantenendo quel tono fermo, ipnotico, capace di catturare con una sola parola.
“Change (In The Air)” doveva avere proprio quell’energia sottile: la vibrazione che percepisci prima ancora di comprenderla, la sensazione che qualcosa stia per cambiare… anche quando tutti fingono di non accorgersene.
Sono sempre stato attratto da ciò che ipnotizza: movimenti lenti ma profondi, efficaci e spettacolari per ciò che comunicano, non per le apparenze. Infatti amo gli artisti che non hanno bisogno di muoversi per far tremare il pavimento: Clapton, Knopfler, Gilmour… musicisti che restano al centro del palco come statue e fanno cose incredibili senza sbraitare o atteggiarsi. Qualità allo stato puro.
Apro una parentesi: di recente ho visto Eric Clapton dal vivo. A ottant’anni, nei momenti in cui restava solo voce e chitarra, faceva calare un silenzio che — in diecimila persone — era quasi irreale. Non sentivi cadere uno spillo. Ho guardato mia moglie e le ho detto: “c’è più silenzio qui che in chiesa”.
Questi giganti hanno cambiato il mondo — e le persone — semplicemente facendo ciò che sanno fare. Sono vere figure profetiche.
Tornando al brano: quando finalmente “Change (In The Air)” ha preso forma, con quella sua calma apparente e la voce che sembra un respiro, questo è esattamente dove doveva arrivare.
Hai un rituale particolare che ti aiuta a entrare nel “mondo” dei tuoi brani quando inizi a comporre?
Direi di no. Per me tutto nasce da un dettaglio che mi colpisce: un’esperienza personale, qualcosa che ho letto o una dinamica osservata negli altri. E la prima traduzione di tutto questo avviene sempre sulla chitarra acustica.
Quasi sempre parto da un blues: è una grammatica essenziale, che permette di dire qualunque cosa senza perdersi. Da lì il brano comincia a delinearsi; capisci se avrà una tinta più luminosa o più malinconica, sperimenti qualche variazione armonica, spesso guidato dai grandi che ti hanno preceduto. Affini il brano finché voce e chitarra non si reggono autonomamente.
Solo allora passo all’arrangiamento, scegliendo la direzione estetica più adatta: un suono acustico e vintage, oppure qualcosa di più rock, pop, elettronico… dipende dal vestito che il pezzo chiede.
Da qualche tempo gestisco quasi tutto in autonomia: registro le chitarre ritmiche e soliste — elettriche, acustiche, il dobro — poi basso, synth; curo il mix e, talvolta, anche il mastering.
Come ho detto in un altra intervista, non ho più interesse a dipendere dai tempi degli altri. Non tutti sono disposti ai sacrifici profondi che questo mestiere richiede, ed è legittimo. Per questo preferisco occuparmene io, con cura e continuità, dall’inizio alla fine.
Se Rido, Yes Man e Change (In The Air) fossero tre personaggi, come li descriveresti?
Se Rido, Yes Man e Change (In The Air) fossero tre persone, li vedrei così:
Rido è quello che non ne può più, ma riesce comunque a restare in piedi anche quando tutto crolla. Ha un sorriso amaro e sincero. Dentro ci sono cicatrici e storie vissute. Ha imparato a trasformare la delusione in forza, a resistere senza abbassare la testa e a restare autentico. Ironico senza essere leggero: il suo ritmo allegro inganna, ma sotto c’è un manuale di sopravvivenza alla milanese. Ti accompagna tra dolore, lucidità e resilienza, e ti ricorda che sopravvivere spesso passa dalla capacità di ridere quando ormai le parole sono finite — o quando le parole diventano troppo noiose o finte e ti fanno solo perdere tempo. Un peronaggio forse il grande Enzo Jannacci : la sua maschera poetica: ironia amara, cuore enorme, sguardo lucido sul mondo.
Ridacchia, ma capisce tutto.
Yes Man è l’incubo di chi lavora col cuore e con passione, di chi dice le cose come stanno, anche se bruciano , di chi è diretto, burbero, severo, ma coerente. Quando lo Yes Man incontra persone che sanno il fatto loro , capisce subito che con loro non si scherza. Lo scuote, lo fa riflettere e gli ricorda che restare fedeli a se stessi vale infinitamente più che cercare di piacere a tutti…
Perché lo Yes Man è il lecchino per antonomasia: a furia di dire “sì” scivola su tutto, senza spina dorsale, con mille facce a seconda dell’occasione. A furia di dire si combina più casini di un gatto in una cristalleria e, diciamolo, un po’ ci si gode quando la maschera di questi personaggi cade finalmente, quando tutti li sgamano e si capisce chi non vale davvero niente. Qui ci vedrei i personaggi di Loro di Sorrentino. In Loro questi personaggi sono ritratti come figure plastiche, servili, sempre pronte ad annuire per convenienza, prive di una vera spina dorsale che “scivola su tutto” e si rivela per quello che è non appena incontra qualcuno davvero competente o integro.
Change (In The Air) è silenzioso, riflessivo, ipnotico. Non lo noti subito, ma quando c’è, cambia tutto senza fare rumore. Paziente, sottile, con una forza che percepisci prima ancora di capire cosa stia succedendo. Ti guida verso il cambiamento senza imporre nulla: ti parla, ti sussurra, ti guarda e ti fa sentire che qualcosa sta per succedere… anche se tutti fingono di non accorgersene. Elegante nella calma, potente nella sostanza: sa raccontare molto senza muovere un muscolo, senza alzare la voce, lasciando che tu faccia tutto il lavoro di osservazione. È il tipo di persona che potrebbe insegnarti filosofia solo con un sospiro.
Tre personaggi molto diversi, quindi, ma uniti da un filo comune: la sincerità. Uno ti fa ridere e ti accompagna tra le cicatrici, uno ti scuote e ti costringe a guardare la realtà, l’altro ti conduce con leggerezza e profondità verso il cambiamento. Insieme raccontano il percorso di un artista: tra fatica, resistenza e intuizione, senza compromessi e senza maschere… e con un pizzico di ironia che, diciamolo, non guasta mai. Qui ci vedrei MORPHEUS Matrix; non alza la voce, non si agita, parla con la calma di chi ha già capito tutto,guida, non costringe,ti accompagna verso un cambiamento enorme… con una frase, un silenzio, uno sguardo,è filosofico senza mai essere pesante,ha un’eleganza immobile, quasi rituale,ti fa percepire l’evento prima che succeda.
in quale momento della giornata consiglieresti di ascoltare Fotosintesi per coglierne davvero l’essenza?
Direi che Fotosintesi non è affatto un disco da ascoltare distrattamente: per quanto possa sembrare leggero in superficie o dalla copertina, richiede attenzione e presenza. Alcune persone mi hanno scritto raccontandomi che ascoltano Rido mentre fanno jogging, che Change (In The Air) li accompagna durante gli allenamenti in palestra, o che Yes Mansembra dare voce a chi è stanco di certe dinamiche lavorative ma non ha mai trovato il coraggio di dirlo apertamente.
È un EP che funziona come un piccolo viaggio interiore. Non si limita a intrattenere: invita a rallentare, riflettere, respirare verso la direzione desiderata. Ogni brano custodisce un proprio universo, e ogni sfumatura — musicale o testuale — merita di essere colta con calma. Solo così emergono i dettagli, le emozioni sotterranee, quei momenti in cui il disco ti cammina accanto senza imporsi, lasciando che sia tu a trovare la tua connessione personale.
Credo che ciascuno, in un modo o nell’altro, possa ritrovarsi: nel sorriso fragile di Rido, nella frustrazione taciuta di avere a che fare con uno Yes Man, o nella sospensione rarefatta di Change (In The Air), quando manca ancora il coraggio di compiere un cambiamento autentico.
La sua essenza si rivela pienamente soltanto con un ascolto lento: ogni nota e ogni parola hanno bisogno del loro tempo per essere percepite, proprio come la luce che alimenta la fotosintesi. Non è un’esperienza immediata, ma qualcosa che cresce con te, aprendosi gradualmente e lasciando spazio alla contemplazione e alla scoperta.
Forse, alla fine, è un po’ come un buon vino: va assaporato con calma, nel momento giusto della giornata e nel contesto adatto, così da coglierne tutte le sfumature. Non è qualcosa da consumare in fretta.
Qual è la domanda su questo progetto che speravi ti facessero e che nessuno ti ha ancora posto?
“Cosa ti ha spinto a trasformare Fotosintesi da una visione a una realtà costruita quasi interamente con le tue mani?”
Sarebbe stata questa la domanda capace di cogliere davvero il cuore del progetto. Fotosintesi non è soltanto un EP: è il risultato di anni trascorsi a suonare di notte, di errori che hanno insegnato più di qualsiasi manuale, di esperimenti, tentativi, atti di coraggio interiore e scelte compiute un passo alla volta.
L’ho costruito traccia dopo traccia, registrando chitarre, basso, synth, mixando — tutto da solo — perché desideravo che ogni dettaglio portasse la mia impronta, la mia visione, senza filtri.
La spinta è nata da un bisogno quasi fisico di indipendenza. Ogni nota, ogni parola, ogni pausa è lì perché la sentivo necessaria: non per compiacere, non per inseguire tendenze effimere e nemmeno per inseguire qualche algoritmo .
Portare Fotosintesi alla luce in questo modo è stato anche un esercizio di resilienza: fidarsi del proprio istinto, perseverare quando tutto sembra remare contro e continuare a restare fedeli a ciò che si sente davvero. È un atto di autenticità — quieto ma fermo — e, allo stesso tempo, una forma di rispetto profondo per la musica, che è la mia vita, la mia luce.
In fondo, la risposta a quella domanda racchiuderebbe l’intero spirito dell’EP: indipendenza, autenticità, resilienza e un amore per la musica che si inchina soltanto alla propria verità.

