Interview – Amsterdam Parkers

Dopo il debutto con “Solo me”, gli Amsterdam Parkers tornano a far parlare di sé con “Calabroni”, un singolo che non ha paura di parlare di paura. La band, divisa tra Milano e Teramo, racconta un’epoca fatta di ansie, silenzi e desideri repressi, trasformando il malessere in energia creativa. “Calabroni” non è solo un brano, ma una presa di coscienza collettiva: un modo per urlare la propria fragilità, riconoscerla e farne musica.

“Calabroni” è un titolo insolito e affascinante. Perché proprio questo insetto è diventato il simbolo del vostro nuovo inizio?

A Montorio si dice “tastaferro”. Diciamo che è un aggettivo che viene dato a persone poco belle. Allo stesso tempo è un animale coraggioso che non sa che non può volare e bla bla bla.

Come si traduce la paura in musica, senza farla diventare solo malinconia o autocommiserazione?

La paura si traduce senza aver paura di avere paura. La malinconia c’è, l’autocommiserazione pure ma senza pesantezza.

Cosa rappresenta per voi “la fine del silenzio”?

La fine del silenzio significa ricominciare a suonare live, ricominciare a fare nuovi brani, ricominciare a divertirci insieme. Dal 2019 ad oggi c’è stata quella fase in cui dovevamo capire che mestiere fare ed essere, quindi abbiamo preso una grande pausa, prima di ricominciare a fare quello che ci fa stare bene: suonare.

È più un gesto personale o collettivo?

È molto collettivo. Siamo uniti, ci supportiamo e sopportiamo a vicenda. Stiamo bene sia in sala prove che fuori ed è una situazione che abbiamo ricostruito dopo tanto tempo, lavorando prima su noi stessi e poi sugli altri.

In che modo “Calabroni” anticipa le sonorità e i temi del vostro primo disco?

“Calabroni” è il brano che volevamo far uscire come primo singolo. Un po’ perché esce dai nostri soliti schemi, un po’ perché ci fa ballare. Un po’ perchè è il mood che ci rappresenta di più. Urlare la verità, sfogarsi!

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