Intervista: TUM

Torna TUM, al secolo Tommaso Vecchio (vi ricordate dei Pocket Chesnut?), con il suo album solista dopo Take-off and Landing del 2018.
The Dark Side of Minigolf è un viaggio intimo, ironico e malinconico, parla di di cadute, ripartenze e piccole epifanie.
Lo abbiamo incontrato per parlare di ricordi, di viaggio, di amore (quello con la “crocetta su sì o su no”) e di quel minigolf un po’ polveroso che come la vita fa sorridere e un po’ spaventa.

IR: Partiamo dal titolo: nella nota stampa dici che è “frutto di un ricordo di una serata a Riccione diventato metafora di vita“. Cosa rappresenta ancora per te?

TUM: E’ un immagine che mi è salita in testa quando mi sono chiesto come chiamare il disco, tipo il fotogramma di un film. Eravamo all’addio al nubilato del mio amico Marco, sei amici che faticano a vedersi perchè sempre pieni di impegni. Ci ritrovammo a giocare a minigolf in un posto un po’ horror e polveroso. Mi piaceva l’idea di rendere questa atmosfera di gioco che può anche spaventare come la vita. Ho pensato all’immagine della copertina e a un fascio di luce quasi magico che ti acceca quando meno te lo aspetti. A volte le idee nascono così, sono immagini che ti salgono su…

IR: Rispetto a Take-off and Landing del 2018, questo secondo album sembra più intimo e introspettivo. In che modo hai fatto evolvere la tua scrittura in questi anni?

TUM: Il primo disco è nato dopo tantissimo lavoro sulla performance delle canzoni, le abbiamo provate così tanto che credo avremmo potuto suonarlo tutto ad occhi chiusi in presa diretta. Qui è diverso, ho raccolto molte idee come demo acustiche dal 2021 poi ho usato due approcci diversi. Alcune canzoni sono sbocciate in sala prove con Gabri e Stefano altre invece sono state scritte nello studio di Cristian Chierici a Lambrate. Sono i brani che escono dal mio seminato alt-folk e sono quelli che mi hanno sorpreso di più nella resa finale, tipo the MooN!, BodyCheck o You are not here. Devo ringraziare Cris per avermi sorpreso.

IR: Parli di “piccole catastrofi” quotidiane. Quale canzone rappresenta una catastrofe più delle altre?

TUM: Bodycheck che apre il disco è un post-it che mi volevo lasciare sulla porta, un reminder da tenermi a mente prima di uscire ogni giorno. Come dire, qualsiasi cosa succeda io continuerò a sbagliare, continuerò a essere la mia versione più gentile,  come posso. Questa fa un po da parafulmine a tutte le “piccole catastrofi” che ti possono capitare. Poi come scriveva Machado “tutto passa, tutto resta”, se siamo ancora qui cerchiamo di vivere al meglio per come possiamo. Ci sono ferite che lasciano cicatrici e non ne sono immune: la perdita della mia mamma, una separazione, qualche kg in più, qualche ora di sonno in meno…avanti si va, cadendo, rialzandoci.

IR: Il disco è un viaggio geografico (Sudafrica,Val d’Aosta, Toronto, Napoli…) Come nascono queste “mappe sonore”?

TUM: Associo le canzoni ai luoghi perchè semplicemente sono nate in quei posti e se non avessi viaggiato non sarebbero proprio nate. Komatiport l’ho registrata cantando in macchina con tre ragazze romane durante un safari con viaggi e avventure nel mondo. Lay your love mi è proprio salita in testa per come la senti iniziare ossia un coro di bimbi che facevano salire questo love mantra, all’inizio avevo in testa una specie di tender dei Blur ma poi è diventata una ballad piena di sentimento alla Ben Lee ma punteggiata di oscurità distorta in stile Sparklehorse e credo fotografi bene il momento. Evolving parla della fatica di crescere e mi è nata tra le mani strimpellando l’ukulele sui bastioni di Castel Sant’Elmo a Napoli…non mi era mai capitato di scrivere una ballad guardando il mare, esperienza che consiglio ai miei colleghi cantautori.

IR: Le tue influenze sono variegate, ce n’è qualcuna che ha prevalso durante la creazione del disco?

TUM: In sudafrica ho ascoltato tantissimo Graceland di  Paul Simon  è un disco immenso e se pensi che è uscito nell’86 è un miracolo vero. Adoro come faccia incastrare le melodie afro al folk americano è davvero un pioniere del cross-over.

IR: La produzione di William Novati come ha influito nell’equilibrio spontaneità/profondità dei brani?

TUM: William è molto attento, capisce subito l’intenzione dei brani e ha messo sul piatto quello che avevo in testa. Ho fatto solo due giornate piene in studio, Toronto è nata al 100% con lui in studio e l’ha tirata fuori dal cilindro come fosse una registrazione live…credo si senta questa cosa.

IR: Ami circondarti di ottimi musicisti che quasi empre risultano poi essere ottimi amici: quanto conta per te la dimensione del gruppo nella realizzazione di un disco così personale?

TUM: Direi che è fondamentale al mio livello perchè non ci sono in ballo soldi o promesse di vana gloria, qui si suona perchè ti piace e basta e il bello del suonare per divertirsi è anche tutto il contorno, la birra insieme, la trasfertina con la trattoria per suonare in qualche posto dimenticato da Dio. Insomma se non siamo amici è tutto forzato e difficile. Gabri c’è dall’inizio, è amico da anni e anni, poi è entrato anche Stefano con cui ci troviam bene e sarà molto bello rivederci per riprovare il live e presentare il disco sui palchi per come lo senti.

IR: Lay Your Love è descritta come una canzone che anche i bambini possono canticchiare. Ti piace l’idea che le tue canzoni possano essere accessibili, anche quando raccontano temi complessi?

TUM: Avevo tanta paura dell’effetto Mr.Rain ma alla fine mi piace tantissimo come attacca Lay con quel coro di bimbi perchè è nata proprio così e così è rimasta. Mi piace quando le canzoni ti restano in testa è una sensazione freak ma bella, qui s parla d’amore ed è vero è un tema molto che sa essere complesso ma al contempo anche molto diretto e schietto. Mi vuoi bene? Crocetta su si o crocetta su no. Se metti la crocetta sul forse già mi fai capire che non andiamo bene…

IR: Guardando al futuro, cosa ti piacerebbe che restasse a chi ascolta The Dark Side of Minigolf? Una sensazione, un’immagine…

TUM: Un sorriso davanti allo specchio dopo esserci lavati i denti al mattino. Passano gli anni ma ogni giorno usciamo di casa con quella voglia di metterci in gioco e di imparare che avevamo a 13 anni, restiamo accesi insomma…

IR: Hai già idea di come porterai live i brani?

TUM: Si continuerò come fatto lo scorso anno in quattro con Gabri al basso, Stefano alle chitarre, io con Ukulele e bluesharp e il buon Leo alla batteria. Spero di avere ogni tanto anche qualche ospite che ha suonato del disco sarebbe un onore riuscire a rendere live al meglio alcune canzoni un po’ più complesse del solito altrimenti rimaniamo noi quattro amigos e vai di “pumpum sgnack”.

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