Interview – Anatemah

Il nuovo album degli Anatemah, Sambèlo da ròcoło, prende ispirazione dall’antico dialetto veneto e dall’immagine del piccolo uccello “sambeo”. Un progetto che mescola acustica, elettronica e sperimentazione sonora, dove dialetto e identità culturale diventano parte integrante della musica, e la collaborazione con Frank Martino arricchisce ulteriormente il suono della band.

Il titolo del disco “Sambèlo da ròcoło” richiama l’antico dialetto veneto e la figura dell’uccello-“sambeo”: come siete arrivati a questa immagine e che ruolo ha nel concept dell’album?

Alessandro:
Il sambèlo è un piccolo uccello usato come esca nella caccia: canta e non sa di essere parte di una trappola. In veneto, “sambeo” vuol dire anche scemo, ingenuo. Ci è piaciuta questa doppia verità — la fragilità e la stupidità come punto d’accesso alla creatività. È un titolo ironico, ma anche molto serio: parla di come spesso l’artista, o chi cerca libertà, si espone e rischia senza capire fino in fondo dove si trova. In fondo tutti, prima o poi, siamo un po’ sambèi.

Nell’album avete unito acustica, elettronica e sperimentazione sonora: come avete scelto quali strumenti o suoni usare per creare l’atmosfera unica del disco?

GianRanieri:
La base è tromba, basso elettrico e batteria — un trio “fisico”. Da lì ho lavorato con elettronica, campioni, manipolazioni digitali. Molto materiale nasce in casa: frammenti, improvvisazioni, registrazioni spontanee che poi ho montato e trasformato. Ci piace l’idea che il suono non sia mai definitivo: tutto è vivo, mobile. L’elettronica non aggiunge “effetti”, ma un secondo livello di ascolto, come un’eco che riscrive la realtà.

I titoli dei brani evocano espressioni dialettali e simboliche, come “Dàghe!”, “Casòto” e “Tàsi e tira”: come avete lavorato sul rapporto tra dialetto, significato letterale e significato metaforico nelle vostre liriche?

Michele:
Il dialetto per noi è una chiave. Non è folclore, è identità sonora. Ogni parola in veneto ha un ritmo, un accento, una musica sua. “Dàghe” è un’esortazione, “Casòto” è il caos, “Tàsi e tira” è filosofia pura: stai zitto e vai avanti. Dentro questi modi di dire c’è un mondo intero, diretto e ironico, ma anche poetico. Usare il dialetto ci fa stare più vicini alla realtà, a noi stessi.

Avete collaborato con Frank Martino come chitarrista e produttore: in che modo questa collaborazione ha influenzato il suono finale e la visione artistica del disco?

Alessandro:
Frank è un amico, prima che un musicista incredibile. Tutti noi avevamo già suonato con lui in altri contesti. È una presenza generosa, concreta: entra nel suono senza invaderlo. Ha portato un’energia nuova, un punto di vista esterno ma perfettamente in sintonia con il nostro linguaggio. Il suo intervento è stato come aggiungere un quarto respiro al trio, qualcosa che espande senza spiegare.

Guardando ai live e al vostro impianto rituale di palco, quali elementi avete aggiunto o modificato per la tournée di questo disco rispetto agli spettacoli precedenti?

GianRanieri:
I nostri concerti stanno diventando un piccolo teatro sonoro. C’è musica, certo, ma anche racconto, ironia, improvvisazione verbale. A volte sembriamo una stand-up comedy con strumenti. Ogni concerto è diverso, dipende dal luogo e dal pubblico. Non abbiamo una tournée vera e propria: suoniamo dove ha senso, dove ci ascoltano davvero. Più che “portare in giro” il disco, lo facciamo vivere ogni volta in modo diverso.

Quali sono le vostre influenze musicali? C’è qualcosa che proprio non ci aspetteremmo mai ascoltandovi?

Michele:
Siamo onnivori. Jazz, elettronica, musica contemporanea, ma anche cinema, danza, videoarte, perfino pubblicità e rumori quotidiani. Ci piace contaminare, mescolare. Probabilmente non vi aspettereste che certi groove nascono da vecchi spot anni ’70 o da registrazioni ambientali di casa. Tutto può diventare musica se lo ascolti nel modo giusto.

Quale domanda avremmo assolutamente dovuto farvi e non vi abbiamo fatto? E quale sarebbe la risposta?

Alessandro:
Forse: “Vi sentite una band jazz?” La risposta è: “Dipende dal giorno.” A volte sì, a volte no. A volte siamo solo tre persone che provano a fare ordine nel rumore. E quando ci riusciamo, anche solo per un attimo, quello è già jazz.

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