Intervista: Andrea Van Cleef
IR: Greetings from Slaughter Creek è stato registrato in una sola giornata, il 30 dicembre 2024,negli Stati Uniti. Com’è nata l’idea di questa live session e cosa ti ha spinto a tornare in Texas per realizzarla?
AVC: L’idea di tornare in Texas c’era da un po’ e si è potuta realizzare grazie all’impegno del boss di Rivertale, Paolo Pagetti. Se nel viaggio di due anni fa l’obbiettivo era quello di registare il disco che sarebbe poi diventato “Horse Latitudes”, stavolta si puntava a suonare live il più possibile e a registrare un album dal vivo per documentare un po’ tutto il cammino che ci ha portato a lavorare tra Europa e Texas negli ultimi due anni, e penso che il disco resterà come una testimonianza fedele.
IR: Il disco vede la partecipazione di musicisti di grande esperienza, come Patricia Vonne, Mike Zeoli e Stefano Intelisano. Che tipo di alchimia si è creata in studio con loro?
AVC: Trovo sempre straordinario il modo con cui si riesce a lavorare senza fatica con i musicisti che incontro lì. Qui in Italia (meno in altre nazioni europee) mi capita spesso di fare fatica a spiegare riferimenti e intenzioni nei brani che suono, che si tratti di musicisti, fonici o ingegneri del suono (con eccezione per quelli che sono ormai diventati collaboratori fissi anche qui, con i quali c’è grande feeling). Lì riesco ad intendermi con una velocità incredibile, senza bisogno di spiegare niente, giusto qualche parola per connotare il senso dei brani e il mood; in maniera paradossale c’è più affinità culturale e terreno comune. Il risultato è un approccio più rilassato e meno strutturato ai brani, l’alchimia che si è creata è stata davvero “facile”, naturale, mai forzata.
IR: Il titolo dell’album richiama Slaughter Creek, un luogo reale in Texas: cosa rappresenta per te questo posto, simbolicamente o musicalmente?
AVC: Slaughter Creek è una delle uscite della highway che da Kyle, dove sta lo studio di Rick del Castillo dove abbiamo registrato il live e gran parte di “Horse Latitudes”, arriva fino ad Austin. Mentre il driver Carlos (ciao Carlos! Mitico!) ci portava in città ho notato il nome sul cartello e gli ho chiesto: – oh, usciamo qui, il “torrente del massacro”, dev’essere un posto carino, confortevole.. – ci siamo messi a ridere, ma ovviamente il nome aveva una risonanza da spaghetti western ultraviolento, ne abbiamo parlato un po’, quindi alla fine mi sembrava, da italiano in Texas, una bella sintesi dell’esperienza.

IR: Hai scelto di concludere il disco con “Big River” di Johnny Cash. Cosa significa per te rendere omaggio a Cash, e quanto ha influenzato il tuo percorso artistico?
AVC: I miei primi ricordi di Cash risalgono a quando ero bambino, l’avevo visto in un film western e in un episodio del tenente Colombo, ero affascinato dalla figura del “man in black”, ovviamente. Più tardi, a metà dei ’90, ho invece fatto davvero la conoscenza del Cash musicista, con i dischi prodotti da Rick Rubin, che all’epoca personalmente (ma penso di essere in buona compagnia) avevano aperto un varco gigantesco nel mondo di un certo modo di interpretare o reinterpretare le canzoni. Il brano “Thirteen”, scritto da Glenn Danzig, che all’epoca adoravo (ero nella mia giovanissima fase punk e andavo matto per i Misfits) e che mai avrei collegato a Cash, mi aveva permesso di capire che l’intensità di un brano, la sua per così dire violenza o impatto, non sono legate al volume degli strumenti con i quali viene interpretato, ma alla credibilità di chi lo canta e lo suona, al mood e alla veste sonora in maniera molto più complessa di quello che avevo compreso fino a quel momento. Nulla è stato più lo stesso per me, e nel corso degli anni ho recuperato poi tutta la produzione di Cash, comprese le sue prime cose come “Big River”, che è un brano del 1958, molto più vecchio di me, ma che sento molto “mio”, essendo anche cresciuto in una casa davanti a un fiume. Cash è stato un vero gigante, e per me è un riferimento imprescindibile ogni volta che penso a raccontare una storia dentro a una canzone.
IR: Il tuo precedente album, “Horse Latitudes”, ha avuto un ottimo riscontro anche all’estero, come hai vissuto questa fase di forte esposizione internazionale?
AVC: Le cose sono cambiate molto dopo il primo viaggio in Texas di due anni fa. Prima di andare lì avevo già suonato e cantato musica mia in giro per l’Europa, ma si trattava principalmente di roba heavy-psych, in larga parte strumentale, anche se avevo avuto diverse occasioni di proporre parallelamente il mio repertorio più da songwriter. Però andare proprio in Texas, ad Austin, che è la capitale della live music negli USA, a cantare canzoni mie da italiano che si esibisce con un repertorio originale di “americana” interamente in lingua inglese (nonostante i miei studi in storia e letteratura angloamericana e il mio virtuale bilinguismo coltivato negli anni non puoi mai sapere davvero come le tue cose possano “risuonare” alle orecchie di chi culturalmente sente nella sua quotidianità quel tipo di proposta, lì dove tutto è nato) era una cosa diversa. Avere ricevuto feedback molto positivi, per i miei brani e interpretazioni, è stato davvero gratificante e mi ha permesso di trovare più convinzione, mi ha dato fiducia e reso consapevole di poter essere credibile davvero. Quindi ricevere poi più esposizione all’estero (anche con l’inserimento in importanti playlist digitali di curatori statunitensi dedicate a blues, folk e roots music) è stata praticamente una conseguenza della maggiore fiducia con la quale si sono proposti i brani. E devo dire che mi sento sempre più a mio agio dove posso proporre le mie cose in un contesto culturale più favorevole. Ormai sono troppo “vecchio” e ho troppe responsabilità qui per trasferirmi, ma se tornassi indietro nel tempo sarebbe la mia prima scelta di vita, uscire dall’Italia per cercare di vivere di musica con dignità e con senso.

IR: Nel live texano sei stato affiancato ancora una volta da Simon Grazioli. Cosa rende così speciale la vostra collaborazione musicale?
AVC: Io ho una grande fortuna: avere amici che sono anche musicisti davvero straordinari. Ti potrei dire questa cosa per Simone Helgast, che suona le percussioni con me da anni, per Pietro Gozzini, un contrabbassista fuori dall’ordinario, per la violinista Giulia Mabellini o il chitarrista Alex Stangoni che mi accompagnano quando facciamo le date in full band. Con Simon Grazioli si è creata una grande alchimia, anche a livello umano, che ci ha permesso di rendere al meglio i brani del disco anche nei concerti in duo che abbiamo fatto nell’ultimo anno. Ha una grande curiosità musicale che lo porta ad ascoltare molta musica per definire le coordinate dell’approccio da avere ai progetti in cui è coinvolto, e poi ha anche una grande preparazione sullo strumento, cosa che lo rende un chitarrista e mandolinista con cui è sempre un piacere lavorare. Preparazione, talento e curiosità, unite alla voglia di ascoltare sempre tanta musica, sono le doti più preziose per un musicista, penso che chiunque faccia musica te lo possa confermare.
IR: Con “Greetings from Slaughter Creek” hai scelto di attraversare la tua discografia passata. È un modo per fare il punto su chi sei oggi artisticamente?
AVC: Ora che me lo dici penso sia proprio così. Non ci avevo pensato razionalmente, ma penso che tu abbia centrato il punto. Nel disco ci sono brani tratti da tutti i miei quattro dischi solisti. Forse era il momento giusto, dopo due anni di pausa dalla musica più “rumorosa” che ho sempre fatto, due anni di focus solo sulla carriera di songwriter.
IR: Il disco uscirà sia in formato digitale che in vinile per Rivertale Productions. Che valore ha per te la fisicità del vinile in un’epoca sempre più digitale?
AVC: Inestimabile. Ascoltare musica su vinile su un impianto almeno decente per me è il livello massimo raggiungibile dall’esperienza musicale come ascoltatore “domestico”. Non sono un collezionista, ma compro ancora un sacco di vinili (e qualche CD) ogni mese, anche se la qualità dei nuovi spesso lascia a desiderare. Sono sempre alla ricerca di prime stampe di rock, soul, funk, blues, prog, country et cetera prodotti tra il 1969 e il 1980, che per me è un po’ l’epoca d’oro della qualità nella produzione musicale (anche se dopo il 1980 i dischi new wave hanno soluzioni sonore davvero affascinanti nella resa su disco). E ascolto musica in continuazione, quando sono a casa o fuori, anche se col digitale (che nei primi 15/20 minuti sembra eccezionale e superiore a qualsiasi formato) tendo a stancarmi presto, anche se parliamo di file lossless (con gli mp3 dopo 10 minuti impazzisco come i cani con i telecomandi a ultrasuoni), dopo la mezz’ora tendo a stancarmi, col vinile non succede mai, andrei avanti a ripetizione, se fosse possibile passerei da un disco all’altro senza soluzione di continuità, in eterno, spaziando tra i generi. E non parliamo delle copertine, del vero piacere per occhi e tatto. La musica digitale è un po’ come il porno online. Va bene come surrogato, ma non è mai davvero soddisfacente.
IR: Hai in programma altri live per questa estate? se si con che formazione?
AVC: Vivendo principalmente di musica non posso permettermi di non suonare, e ogni occasione è buona. Ci saranno un bel po’ di concerti con formazioni variabili, anche se tendenzialmente per i brani di “Horse Latitudes” manterrò l’approccio acustico e molto roots che si sente anche nel live. E forse giungerà anche il momento di ritornare a suonare stoner/heavy psych con una nuova band. Vedremo!