Il ritorno di Morgan: sei versioni della stessa canzone. Un po’ di contesto

Premessa: l’opinione che andrò a esprimere è maturata, in buona parte, grazie alla lettura del libro di Piergiorgio Pardo intitolato Un Gusto Superiore. Nel libro si traccia la linea storica all’interno della musica italiana caratterizzata da artisti solisti che davano moltissima importanza al suono, e che, per questo, ingaggiavano musicisti molto dotati in fase di registrazione e lasciavano loro una certa libertà creativa. Il libro mi è servito per inquadrare e sistematizzare con precisione concetti di cui avevo idea, ma in modo molto più vago. Appena terminata la lettura, ecco qui Morgan, che fa rivivere la filosofia di artisti come Claudio Rocchi, Battiato, Battisti, De André e moltissimi altri, che nel tempo si è sempre più persa. Non potevo, quindi, non vedere questo ritorno del controverso musicista monzese sotto il filtro del fermento creativo degli anni Settanta, raccontato egregiamente da Pardo.

Dichiarazioni come “la musica si divide in quella che ci piace e in quella che non ci piace”, o “dire ‘mi fa cagare’ è sempre un’argomentazione validissima” sono, infatti, assolutamente corrette nella misura in cui evitano l’estremizzazione dell’approccio opposto, quello, come si suol dire, riccardone. Però, è da ormai troppo tempo che l’estremizzazione è avvenuta, sì, ma dal lato opposto, con il miglior esempio dato dal fatto che diversi appassionati avevano dato credito al progetto Cambogia, evidentemente falso come una banconota da tre euro, e che tale in effetti si è dichiarato, dopo un po’. Quindi, è arrivata l’ora, almeno per alcune pubblicazioni come questa di Morgan, di capire quando è il caso di non fermarsi alla prima impressione, a quello che ascoltano le nostre orecchie, alla reazione di pancia e/o epidermica suscitata dalla musica. Talvolta, infatti, è il caso di contestualizzare, di trovare una ragione del perché l’artista si è mosso in un certo modo, e conoscere la storia certamente è importante.

La storia ci dice che alcuni tra i più importanti numi tutelari della musica italiana, come ad esempio quelli citati sopra, non erano cantautori come si intende il termine oggi, ovvero gli unici ad aver scritto melodia e testo della canzone nonché principali protagonisti anche dell’aspetto sonoro. Il loro repertorio, infatti, era caratterizzato dal contributo determinante sia di parolieri che di musicisti. Il connubio Battisti-Mogol lo conosciamo tutti, e sappiamo anche che, in seguito, Lucio si è avvalso della scrittura di Pasquale Panella, esattamente come ha fatto ora Morgan. Magari, invece, è meno noto il fatto che, per esempio, in alcuni dischi di De André particolarmente  curati dal punto di vista sonoro, i testi sono scritti in collaborazione con altri autori come Roberto Dané o Giuseppe Bentivoglio, oppure che, da un certo momento in poi, Battiato ha cantato le parole uscite non dalla propria penna, ma da quella di Manlio Sgalambro.

Dal punto di vista musicale, poi, i contributi di altri artisti sono stati ancora più numerosi e importanti. Tra arrangiatori come Gianpiero Reverberi per De André, band intere come la PFM per Battisti, musicisti che hanno prestato la loro opera al servizio di diversi progetti, come Claudio Pascoli, Paolo Donnarumma, Walter Calloni, oppure che hanno contribuito in maniera determinante alle musiche di un singolo artista, come Giusto Pio per Battiato, lo spirito collaborativo era continuo e decisamente fervido, anche se poi i dischi uscivano a nome di una sola persona. Tutto questo avveniva perché non era considerata come una vergogna o comunque come una scorciatoia il rivolgersi ad altri per poter attuare meglio la propria visione, ma anzi, era un merito, perché l’importante era che il risultato fosse di alta qualità e risultasse interessante sotto ogni punto di vista, non solo quello dello scheletro della canzone.   

Purtroppo, a un certo punto, questa cura per la qualità, questo gusto superiore, è risultato di sempre minor interesse per gli artisti e anche per il pubblico, e si è affermato, invece, il concetto per cui, se un disco usciva a nome di una persona, esso dovesse essere stato realizzato unicamente o quasi con le idee di quella persona, e che gli altri potevano giusto limitarsi a fare ciò che veniva loro detto di fare. Si è perso il potere di discernere tra le varie situazioni, non si è capito che questo assunto poteva andare bene per come erano strutturati i progetti artistici di un De Gregori o di un Guccini, ma che, invece, era anche giusto che ci fossero altri tipi di progetti, strutturati in modo che ognuno potesse dare un proprio contributo creativo anche se la visione complessiva proveniva da una mente sola. Invece no: o eri una band, e allora lì ognuno era libero di contribuire, o eri un cantautore, e allora potevi essere solo tu l’autore di tutto.

In questo quadro, il progressivo disinteresse per la qualità come fattore principale di giudizio non poteva essere arrestato e si è giunti, inevitabilmente, al quadro desolante di oggi, nel quale, per avere successo, c’è l’obbligo tassativo di fare ciò che si deve fare, e non ciò che si vuole, come ha detto correttamente Ghemon nel suo ormai famoso post sui social. L’arrivo di qualcuno che ribaltasse la prospettiva era quanto mai necessario, e questo qualcuno non poteva che essere Marco Castoldi, tanto vituperato come personaggio quanto colto e consapevole come musicista e artista.

Solo lui, infatti, poteva avere il coraggio di fare in modo che la sua prima pubblicazione sulla lunga distanza dopo 17 anni contenesse, su otto tracce, sei versioni della stessa canzone. In molti non capiranno questa scelta, e la bolleranno come mossa snobistica o, peggio, presa in giro, ma per chi conosce la storia, questo è, come detto, un ribaltamento di prospettiva benvenuto e necessario. Perché l’arte di assemblare il suono, di studiarlo, di arrangiarlo e di farlo interagire in modo attivo con la parte vocale, senza che esso risulti come un mero accompagnamento, merita la stessa dignità rispetto a quella dello scrivere canzoni, e passare mezz’ora abbondante ad apprezzare sei modalità diverse con il quale un artista ha rimescolato e vestito una singola idea di songwriting dovrebbe dare lo stesso godimento rispetto all’ascolto di sei canzoni diverse con strofe, ritornelli e melodie facili e immediate.

Certo, nessuno vuole entrare nei gusti personali degli individui e, come detto, se qualcuno dovesse decidere di argomentare contro questa scelta di Morgan semplicemente dicendo ‘mi fa cagare’, non avrei niente con cui ribattere. Però, si sa che i gusti di ognuno sono anche influenzati da un sentire comune, e mi sembra inoppugnabile la mia affermazione che questo sentire comune è ormai troppo orientato verso un’unica direzione. Per cui, ben venga questa mossa artistica di Morgan: magari qualcuno rimarrà colpito e avrà voglia di acquisire un po’ di elementi di storia, anche leggendo il libro che ho citato all’inizio. Perché una nuova consapevolezza da parte del pubblico sarebbe un bene per tutti, anche per un’industria discografica che si tiene a galla solo con gli streaming e i meccanismi social, questi sì scorciatoie poco edificanti. Sarebbe meglio, molto meglio, favorire un allargamento di vedute, quello che c’era negli anni Settanta, e non per nostalgia, ma per valorizzare correttamente ogni modalità in cui viene approcciata l’arte della musica.

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