Fabrizio Coppola: tutti giù per l’entroterra
Il bello delle mode musicali è che, quando finiscono, si crea quella predisposizione d’animo tra i musicisti per cui ognuno si sente molto più libero di esprimersi come davvero vuole e anche chi, per un po’ di tempo, era rimasto fuori dal giro delle pubblicazioni discografiche e dei concerti, ha uno stimolo in più per tornare a farsi sentire, perché questo è il momento in cui gli appassionati sono portati a interessarsi di ciò che esce indipendentemente dall’hype, o buzz, o come volete chiamarlo. In Italia, siamo proprio arrivati a questa fase, ora che non solo è terminata la sbornia del cosiddetto it-pop, ma abbiamo smaltito anche l’hangover. Non è che se hai scelto un nome d’arte di una sola parola, preferibilmente di tre sillabe, e porti con te un immaginario legato a un’introspezione all’acqua di rose hai più possibilità di ricevere attenzioni, ma la gente decide effettivamente come impiegare il proprio tempo dedicato all’ascolto di artisti di casa nostra con molta più libertà di pensiero. Ecco, quindi, che era il momento giusto per il ritorno di Fabrizio Coppola, e, infatti, Heartland è uscito lo scorso 27 gennaio.
Era dal 2011 che il cantautore milanese non pubblicava un disco e, come detto, non può essere un caso che questo suo nuovo lavoro arrivi proprio ora. Il nome di Fabrizio Coppola, infatti, rimanda a una Milano musicale che ha vissuto anni da un lato molto intensi, ma dall’altro fieramente lontano dalle luci della ribalta. Erano anni in cui si suonava letteralmente ovunque, tra spazi appositamente destinati all’attività di live club, altri locali pubblici che riuscivano comunque a dare un po’ di spazio alla musica, teatri, case private, situazioni di varia natura. Anche dal punto di vista di chi organizzava le serate si andava da professionisti del campo, ad addetti ai lavori nel senso più ampio del termine che provavano anche a fare questa cosa, a semplici appassionati che formavano associazioni estemporanee e si buttavano, con alterne fortune ma con la sensazione di far parte di qualcosa di vitale e necessario.
Si andava in questi posti e si ascoltava musica fatta ottimamente, col cuore ma anche con grande cura dei dettagli e senza che ci si risparmiasse mai, mica come succedeva in seguito quando si saliva sul palco in due o al massimo in tre con metà dei suoni che uscivano da un laptop; qui, la mentalità era che se serviva suonare in cinque, o in sei, si suonava in cinque, o in sei, o anche in sette, e anche se i palchi erano stretti o, peggio, non sempre c’erano soldi per tutti, non era tutto questo grande problema, in fondo. E poi c’erano le storie, quelle che chi stava sul palco ci raccontava in forma cantata. Storie belle, intense, avvincenti, che provenivano direttamente dalla sfera personale dell’autore, e non c’era l’ossessione che il pubblico si dovesse per forza riconoscere in esse, ma anzi, il bello era proprio cogliere il realismo di ciò che qualcun altro raccontava e che, quindi, poteva essere lontanissimo dalla vita e dalla sensibilità dell’ascoltatore, il quale, però, veniva rapito dall’intensità di queste narrazioni.
Sembra preistoria, a raccontarla, ma ancora un decennio fa, le cose stavano più o meno così, e il fermento era molto forte, perché, come detto, ognuno (musicisti, organizzatori, pubblico, ma anche i fonici e i baristi) faceva la propria parte per mantenere vivo un ambiente che andava sempre e comunque preservato e alimentato come se fosse un lievito madre. Alla lunga, il lievito madre si è seccato e le attenzioni della gente si sono rivolte altrove, così, certi artisti si sono ritrovati semplicemente fuori contesto. C’è chi non si è arreso e ha continuato imperterrito, e c’è chi, invece, si è dedicato ad altro. Per chi fa parte della seconda categoria, o almeno per alcuni di essi, il fuoco della musica non si era, evidentemente, spento, e allora eccolo qui, un nuovo disco di Fabrizio Coppola, nell’anno del Signore 2023. Sembra un evento fuori dal tempo, e invece è più attuale che mai.
Questa lunga premessa, infatti, non è solo un esercizio di nostalgia da parte del sottoscritto, perché trovo che un’attenta contestualizzazione di questo disco sia molto utile per capirlo e apprezzarlo appieno. Un lavoro così, infatti, non solo incanala perfettamente il vissuto che fa parte della carriera dell’autore, ma riporta alla luce quel calore, quella genuinità e quel senso di appartenenza propri di quegli anni. Descriverlo come un disco schietto e sincero non basterebbe a rendere l’idea, perché, per fortuna, questi due pregi non si sono mai davvero persi nella musica italiana, grazie a qualche eroe che ha saputo mantenerli vivi in questo periodo difficile. La schiettezza e la sincerità che emergono dalle note di Heartland, però, sono riconducibili all’ambiente che ho descritto sopra, e non è facile, a parole, spiegare compiutamente questi rimandi, ma basta ascoltare e, per chiunque abbia vissuto quel periodo, i ricordi affioreranno a grappoli, e, per gli altri, basterà aprire la mente e si capirà cosa fosse il sottobosco milanese tra la fine degli anni Zero e l’inizio dei Dieci.
Già il titolo del disco è, più che mai, programmatico. Coppola, infatti, si è sempre molto ispirato all’heartland rock, e non ha alcuna intenzione di nascondersi proprio ora, o far sì, in qualche modo, che chi lo ascoltava prima se ne possa dimenticare. Mettere così in primo piano il proprio amore musicale per eccellenza è una dichiarazione di intenti così limpida che non serve nemmeno spiegarla. Leggi il titolo e sai che disco ti aspetta, semplicemente e senza retro pensieri. In un mondo musicale nel quale la devozione verso il passato è accettata solo se riguarda stili che vanno di moda, c’è ancora qualcuno che punta solo su sé stesso, su quello che sa e che vuole fare e su nient’altro. Potrebbe sembrare un anacronismo, e invece è un fortissimo richiamo all’importanza di rimettere al centro una realtà vera, e non edulcorata. Fabrizio Coppola, con queste canzoni, ci riporta tutti giù per terra, anzi, per l’entroterra, alla fine di un girotondo che ci ha certamente fatto divertire, ma il cui giramento di testa, alla lunga, ci aveva messo un po’ a disagio.
Sul contenuto musicale, è inutile dilungarsi troppo, visto che ho spoilerato abbastanza qui sopra. Basta confermare che il suono è spesso più da band che a artista solista, che ci sono melodie molto immediate e dirette che si alternano con altre un po’ più sfuggenti, che la varietà negli arrangiamenti non manca, pur all’interno di una forte coerenza stilistica, con le chitarre a fare la parte del leone, grazie a un’ottima capacità di sfruttare tutta l’ampiezza di soluzioni che caratterizzano le sei corde, per quanto riguarda sia il modo di suonare, che le modalità di interazione con la sezione ritmica e le linee vocali. La stessa sezione ritmica e le tastiere, comunque, non sono solo lì ad accompagnare, ma risultano altrettanto essenziali per la costruzione di un suono che non disdegna elementi più moderni, senza farsi problemi nello sfruttarne la maggior leggerezza e pulizia, e che, anche per questo, trasuda buon gusto e genuinità, abbinandosi, inoltre, perfettamente alla vocalità calda, rotonda e avvolgente dell’autore.
Anche per quanto riguarda i testi, ciò che ho scritto sopra dovrebbe bastare per immaginare cosa raccontano. Ci sono ricordi di un passato avventuroso, descrizioni di un presente difficile e sguardi a un futuro incerto. Si guarda a sé stessi e al rapporto con le altre persone e con il mondo, si riflette su come si è vissuto, cosa ci è rimasto e ci si chiede cosa arriverà. Da queste canzoni, veniamo a sapere che Fabrizio, con qualcun altro, colpì la notte sparando nel mucchio dei sogni già rotti, quelli che non portano più a niente; poi apprendiamo che adesso lui precipita in strada, proiettile senza una meta, frequenza cardiaca alterata in accelerazione; dopodiché sentiamo l’autore dire a qualcuno, o forse a se stesso, che passerà un’altra notte a chiedersi piangendo “ma dov’è che sto sbagliando?”, e che passerà un altro giorno a difendersi soltanto dalle accuse che gli fanno; in tutto ciò, l’amore è stato avvistato in molti luoghi, e l’hanno anche visto ritornare per un ultimo saluto o illuminare la fine di settembre, ma nessuno l’ha avuto indietro mai una volta che se n’è andato.
Insomma, altro che la Tachipirina 500 che se ne prendi due diventa mille, o il non aver più né fame né sete e sentire il cuore andare più veloce. Qui siamo su ben altri livelli di profondità emotiva, e, se è vero che a leggere così, ciò che racconta Coppola potrebbe essere visto come caratterizzato da troppa negatività, l’ascolto assume, invece, i toni della catarsi, nel senso che le cose stanno così ma è meglio dirselo per rafforzare la propria corazza e, magari, avere la forza di voltare pagina, invece di rifugiarsi in frasette tanto accattivanti nell’immediato quanto vuote nel lungo periodo. La costruzione complessiva di quest’opera crea un risultato maggiore della somma delle parti, le quali possono essere godute appieno solo se fatte interagire tutte assieme, perché una volta funzionava così, e anche se, come ho già detto, questo modo di fare musica non si è mai davvero perso, era da tanto che non si sentiva un disco che richiamasse lo splendore di quella Milano lì, e ce n’era proprio bisogno, come ho spiegato, non solo per nutrire la nostalgia. Per fortuna, ci ha pensato Fabrizio Coppola con questo ritorno.
Analisi accurata e decisamente “sentita” che fa subito venire voglia di ascoltare il disco…..