Dischi vari – autunno 2020
Ci avviciniamo alla fine del 2020 e, come ogni anno, ci rimanevano alcuni dischi di cui volevamo a tutti i costi parlare. Abbiamo, quindi, pensato di raccogliere la nostra opinione in una sola pagina, anche perché, essendo tutti ottimi lavori, pensiamo che potrebbe essere più pratico per consigliare ai nostri lettori cosa ascoltare per recuperare gli ultimi mesi, in caso avessero altro a cui pensare, come del resto abbiamo avuto noi.

MOLTHENI – Senza Eredità (La Tempesta)
Già dal titolo, Umberto Maria Giardini ci fa capire che questo è il canto del cigno per il moniker Moltheni. Giardini ha sentito l’esigenza di tuffarsi nel proprio passato di autore e recuperare quel materiale che, per un motivo o per l’altro, non aveva visto la luce. Ha effettuato una serie di “rivisitazioni, correzioni, riadattamenti contestuali e completamenti” ed ecco l’ultimo album di sempre con il nome d’arte che ha caratterizzato un decennio di carriera per il musicista marchigiano. Ma come sono queste canzoni? È valsa la pena dar vita a questo materiale o si tratta di un’operazione fine a se stessa e senza valore artistico? La risposta è chiara ed evidente fin dal primo ascolto e si consolida con i passaggi successivi: queste sono canzoni di ottimo livello, e bene ha fatto Giardini a svolgere un lavoro di questo tipo. Anche perché questo sesto album avrebbe rappresentato la perfetta continuazione del percorso fino a lì intrapreso, e si colloca non solo cronologicamente, ma anche come contenuto accanto a I Segreti del Corallo. Anzi, detto da uno che ha sempre apprezzato il lavoro di UMG e ritiene proprio quel disco il suo meno riuscito, non tanto dal punto di vista musicale, ma da quello dei testi, questo ne rappresenta una versione migliorata, con le rotondità sonore, che avevano ormai sostituito la spigolosità degli esordi, qui usate in modo particolarmente efficace, una vocalità che risente in modo positivo del decennio successivo di esperienza e testi che non hanno nulla da inviare a quelli degli ultimi due album di Giardini, ovvero sono di una qualità fuori dal comune. In definitiva, c’era davvero bisogno di un disco così, e dobbiamo solo ringraziare Umberto per avercelo messo a disposizione.
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BONETTI – Qui (Bravo Dischi)
C’è ancora voglia da parte di chi scrive canzoni di mettersi in gioco ed esporsi attraverso uno studiato racconto di storie che mettono insieme tra loro il mondo esterno e le sensazioni intime. Non sono più in molti quelli che lo fanno, ma l’aspetto positivo è che chi se la sente di realizzare un lavoro di questo tipo, ha probabilmente il talento giusto per riuscirsi, e quindi, per noi ascoltatori, è più facile capire che è il caso di ascoltare. Bonetti, al suo terzo album, ha deciso di fare proprio questo, e dopo due raccolte di canzoni volutamente poco definite nel suono e dai testi che cercavano di sdrammatizzare le situazioni della vita, si è buttato a fondo nella propria ricerca musicale e, aiutato dal consolidato team composto da Fabio Grande e Pietro Paroletti, ha buttato sul piatto tutto quello che aveva dentro, come cantante e come autore, e non ha avuto remore nell’essere ambizioso sotto ogni punto di vista, proponendo melodie raffinate, un timbro vocale morbido e intenso allo stesso tempo, arrangiamenti di grande atmosfera e testi che puntano su ciò che si diceva a inizio recensione, e precisamente, usando le parole dell’autore in sede di presentazione, “un ricorso a strutture non tradizionali in cui la fusione tra testo e musica prova a rendere tridimensionale il senso di sospensione che caratterizza questa ricerca”. E il bello di tutto ciò è che il risultato risulta particolarmente immediato e di facile ascolto, con le descritte idee ambiziose che sono state perfettamente veicolate per dare a chi vorrà ascoltarle canzoni ammalianti, coinvolgenti e capaci di far immedesimare l’ascoltatore in ciò che raccontano, e non per una qualsivoglia ruffianeria, ma proprio perché è molto facile immergersi in questa modalità di racconto e seguire con estremo interesse il percorso per cui “Camionisti, la canzone che apre l’album, e Le risaie, quella che lo chiude, descrivono due viaggi da o verso un qui generico rappresentato dai cinque brani centrali. Un qui che non è solo geografico, ma che si fa quotidiano, tra passeggiate, cerette, viaggi in metro e sguardi appoggiati sulle cose. Un qui che diventa esistenziale, rappresentando quel posto che cerchiamo e che, magari anche solo per poco, possiamo in qualche modo definire nostro”. Ogni descrizione di situazioni concrete, ogni esplorazione del proprio intimo, ogni unione tra le due cose e tra esse e la parte musicale è sempre perfettamente riuscita per ottenere lo scopo voluto dall’autore e dal suo team, e per dare a noi che ascoltiamo un’esperienza che resta e che lascia un segno.
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C+C=Maxigross – Sale (TEGA)
Molto si è detto della scelta da parte dei C+C di abbandonare Spotify e gli altri servizi di streaming e di pubblicare il disco unicamente su Bandcamp, e questa scelta senz’altro pone l’Italia, finalmente, in un discorso di ampio respiro sulla fruizione della musica e sul ritorno economico per i musicisti coi giusti tempi e non in sconfortante ritardo come al solito. Ciò detto, la cosa più importante è poi il contenuto del disco, e certamente la prova è superata pienamente, con un lavoro in cui la band si reinventa ma mantenendo salde le proprie caratteristiche fondamentali. Questa è, infatti, la versione sicuramente più leggera e in qualche modo pop dei C+C, con canzoni brevi e dirette, con strutture lineari, ritmiche accattivanti, un suono immediato e scorrevole e testi che esprimono concetti chiari e immediati. Dall’altro lato, si sente che sono sempre loro, sia per le rotonde morbidezze in chiave psichedelica che per uno stile melodico che porta con sé quella giusta vaghezza che si integra alla perfezione con l’aspetto sonoro. Il bello, poi, è che il disco è piuttosto breve (meno di 23 minuti) e l’ascolto rende al meglio se effettuato nell’interezza dell’album e nell’ordine in cui le canzoni sono state pensate, infatti c’è anche la possibilità di usufruirne come traccia unica, ed è particolarmente giusto, in questo caso, usare un’opzione del genere. In ogni caso, comunque lo vogliate ascoltare, vi consigliamo di farlo, perché la qualità è molto alta e la serenità che trasmette è qualcosa di importante in un periodo come questo.
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FRANCESCO BIANCONI – Forever (BMG)
Non è la prima volta che il leader dei Baustelle incentra un disco sulla propria personalità musicale e umana, infatti l’aveva già fatto con la propria band in occasione di Fantasma, un disco certamente corale dal punto di vista della realizzazione, ma più bianconiano che mai. Infatti, i Baustelle da lì sono tornati a fare il pop ispirato ai Pulp degli inizi e ora, secondo le parole di Francesco, sono in “fermo biologico concordato”. Così, il musicista toscano ha potuto proseguire nel percorso idealmente iniziato con Fantasma realizzando questo Forever, anche qui con la partecipazione di diverse personalità di spicco, ma facendo in modo di esprimere il più possibile il proprio modo di fare musica, di raccontare storie, di riflettere su se stesso e sul mondo. Un suono che mette insieme snellezza e impostazione orchestrale, l’assenza di una parte ritmica, l’inconfondibile timbro vocale, l’altrettanto riconoscibile lessico che fa convivere gomito a gomito un linguaggio alto e citazionista e passaggi riconducibili alla vulgata popolare, la prospettiva che caratterizza i racconti e le riflessioni dei testi, fanno sì che questo disco non sia per tutti i fan dei Baustelle, ma che sia perfetto per i fan di Bianconi musicista, personaggio e persona. Io, personalmente, lo sono, e infatti avevo adorato anche Fantasma, per cui trovo questo ascolto molto appagante, ma riconosco che, anche se ci sarebbero diverse argomentazioni da portare per certificare la qualità oggettiva di questo disco, è difficile non essere soggettivi nel valutarlo.
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MARU – Toi (Bravo Dischi)
Al terzo album, Maru Barucco riveste il proprio modo di vare pop con un’elettronica che, come dice lei stessa, si ispira ad artiste internazionali come Robyn, Lorde e Christine & The Queens (ma possono venire in mente anche progetti più di nicchia come Azure Blue o Stealing Sheep), e accompagna questi nuovi arrangiamenti con un senso melodico sempre meglio sviluppato, un timbro vocale che ha indubbiamente acquisito maturità e testi in cui le emozioni e i ricordi importanti che hanno lascito un segno vengono espressi in modo sempre più esplicito, con un linguaggio garbato e mai sopra le righe che però butta fuori concetti e affermazioni senza compromessi né filtri. Sono canzoni che più ascolti e più ascolteresti, che colpiscono e che aprono la mente su quanto sia importante per una persona, qualunque persona, essere trattata con rispetto e affetto e su quanto il comportarci male con gli altri possa danneggiare non solo loro, ma anche noi stessi. Se in Italia ci fosse una reale comunità musicale indipendente, legata ai festival internazionali più nascosti e autentici come l’Indietracks, l’Indiefjord e le varie Popfest cittadine, Maru ne sarebbe una leader naturale, dal punto di vista sia musicale che attitudinale, ma anche se invece rimarrà un nome di culto per pochi, il suo lavoro è importante e validissimo.
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MASCARA – Questo È Un Uomo, Questo È Un Palazzo
Il progetto musicale capitanato da Lucantonio Fusaro e Claudio Piperissa è rimasto in silenzio per ben sei anni, durante i quali molte cose sono cambiate nel mondo musicale, e, al di là dei gusti personali di ognuno, si è fatta sempre più strada l’idea che per avere successo, anche in ambito indipendente, fosse necessario sottostare a certe regole e a schemi più o meno predefiniti. Lucantonio e Claudio sono rimasti nell’ombra, a osservare e lavorare coi propri tempi, senza regole né date di scadenza, si sono dedicati anche a produrre musica per altri, e ora sono tornati con un lavoro che si contrappone in modo più evidente che mai alla sensazione di cui sopra. Questo, infatti, è un lavoro che di regole e di schemi non vuole proprio sentir parlare, anzi, ne parla per demonizzarli, per far capire che gli ipotetici futuri distopici tratteggiati da certi film di fantascienza diversi anni fa non sono poi così ipotetici, e che certo non saremo arrivati a quegli estremi e probabilmente mai ci arriveremo, ma che comunque siamo sempre più influenzabili ed è sempre più fattibile guidare il consenso, non solo in ambito musicale. Tutto ciò viene tradotto in un insieme di elementi musicali che volutamente si scontrano tra loro più che procedere fianco a fianco, tra canzone italiana, sonorità wave, incursioni free jazz, melodie che appena aprono si dissolvono o vengono troncate improvvisamente, arrangiamenti disarmonici e quasi beffardi nella propria imprevedibilità, testi che esprimono tutto il disorientamento di chi crede di sapere tutto ma che in realtà non sa motivare nessuno dei propri molti convincimenti. È un corto circuito straniante e che fa di tutto per essere disprezzato, ma che può aprire la mente meglio di qualunque proposta musicale convenzionale per l’ascoltatore che trova il coraggio di immergervisi.
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AN EARLY BIRD – Echoes Of Unspoken Words
Secondo album per il progetto solista di Stefano De Stefano, quinto in totale per il musicista napoletano contando i tre dei Pipers. Stefano conferma il sodalizio artistico con Lucantonio e Claudio dei MasCara e, come per il precedente EP, realizza tutto il disco a Il Faro Studio, senza farsi mancare nemmeno la collaborazione con l’amico Old Fashioned Lover Boy. Se il disco di debutto era caratterizzato da un suono scarno ed essenziale, e l’EP era, invece, molto più ricco di dettagli e intrecci sonori, qui l’artista prova a prendere aspetti di entrambi gli approcci, nel senso che il suono è senza dubbio più snello rispetto a quello dell’EP, ma c’è comunque la voglia di dare profondità e sfumature rispetto alla linearità dell’album del 2018. Questo risultano non facile da ottenere, insieme a un’ottima qualità melodica e a splendide performance vocali fanno di questo disco il migliore in assoluto dei cinque citati. C’è la capacità di dare a ogni canzone una propria identità mantenendo una solidissima coerenza di fondo in tutto il disco, c’è un notevole impatto emotivo, c’è un’idea interessante e perfettamente espressa alla base del disco, quella per cui “le parole non dette non possono avere una eco, ma proprio perché non sono state dette rappresentano una presenza ingombrante e invisibile allo stesso tempo, fluttuando tra le cose e le persone”. Ed è proprio l’abilità nel far percepire all’ascoltatore questa particolarissima fluttuazione, grazie al citato lavoro sui suoni, sulle melodie e sulla voce, a rendere questo disco un ascolto imprescindibile per chi non vive la musica solo come un semplice intrattenimento, ma ama anche, almeno qualche volta, immergersi in ciò che esce dalle casse e lasciarsi accarezzare dalla magia dell’autenticità.
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