Uno spazio da cui partire e una presenza forte: così si promuove la qualità musicale

Ultimamente, la discussione sulla qualità musicale del cosiddetto mainstream è piuttosto accesa, e tra i nomi che la stanno portando avanti c’è Enrico Silvestrin, che in realtà non aveva mai smesso di parlare di musica, ma che solo ora sta tornando a godere di una visibilità quasi paragonabile con quella dei tempi in cui era uno dei volti principali di MTV. In particolare, c’è un discorso di una decina scarsa di minuti in cui il Nostro tratteggia con molta lucidità lo stato del mainstream nostrano, definendolo un ecosistema chiuso nel quale a nessuno interessa promuovere la qualità. La conclusione è un’esortazione a chiunque fosse interessato, invece, a questo aspetto, di accusare apertamente gli attori chiave di questo sistema, ovvero i presidenti della major discografiche, i direttori delle radio commerciali e gli organizzatori di grandi concerti.

Silvestrin ha moltissima ragione nel complesso del suo discorso, però, secondo me, il concetto di promuovere la qualità non basta, da solo, per migliorare lo stato della musica italiana. Infatti, da un lato servirebbe un po’ più di realismo, e dall’altro, la stessa storia della musica italiana degli ultimi vent’anni si è sviluppata in modo che una certa mentalità risulti ormai tropo radicata per poter essere estirpata a colpi di qualità. Vado a spiegare entrambi gli aspetti, o almeno il modo in cui li vedo io.

Il realismo è dato dal fatto che, se vado a guardare dove sta la qualità in casa nostra al momento, e anche dove stava in questi vent’anni, vedo pochissimi progetti che avrebbero potuto far presa sul grande pubblico se promossi adeguatamente. È inutile che ce lo nascondiamo: non tutta la qualità è fatta per essere apprezzata su larga scala, e ci devono essere altri fattori perché essa ottenga questo risultato. Fattori sia di immagine, che di assimilabilità stessa del contenuto musicale, che, ad esempio, sono indubbiamente presenti nelle band di qualità provenienti da Paesi anglofoni e capaci di ottenere una fanbase importante. Dagli Strokes agli Interpol, dagli Arcade Fire ai National, fino agli Arctic Monkeys, c’è tutto un immaginario a livello di look, di carisma, di contesto storico e di capacità di rielaborare le proprie influenze musicali in modo facilmente fruibile, che in Italia è quasi impossibile trovare nell’ultimo ventennio.

Dico quasi perché qualche esempio c’è: i Baustelle, in primis, che infatti il proprio nome se lo sono fatto, e sui quali la Warner, ovvero una delle major coinvolte da Silvestrin, ha scommesso con convinzione; poi non va dimenticata Elisa, che nei suoi primi quattro album aveva intrapreso un percorso perfetto in questo senso, e che, infatti, aveva iniziato a fare concerti nelle grandi arene proprio a supporto di questo quarto disco. Proseguendo, meritano una citazione in questo senso i Perturbazione, che, con Musica X avevano trovato il compromesso ideale. Infine, arrivo direttamente al 2023, con l’ultimo disco di Lucio Corsi, che, se fosse promosso adeguatamente, avrebbe tutte le carte in regola per intrigare anche il pubblico generalista.

Come vedete, sono davvero poche eccezioni alla regola che affermavo sopra, ovvero che la qualità presente nei progetti musicali italiani è di un tipo difficilmente apprezzabile per le masse. E, sempre come potete capire da soli, due di questi quattro nomi, ovvero Elisa e i Perturbazione, non sono riusciti a mantenere la barra dritta, perché la prima ha ampliato il proprio successo sacrificando proprio la qualità, e i secondi non hanno mantenuto l’unità interna che serviva per andare avanti in questo percorso e hanno ricominciato a fare musica bella solo quando si sono ritrovati senza niente da perdere.

Ribadisco: la qualità musicale, da sola, non basta. Serve visione, serve unità di intenti, serve estrema convinzione nei propri mezzi. Chi, negli anni Novanta, si è affermato come grande nome di qualità in Italia (Afterhours, Marlene Kuntz, Subsonica, Verdena) ha evidentemente avuto e continua anche ora ad avere tutti questi punti di forza, i Baustelle li hanno avuti, Elisa e i Perturbazione, semplicemente, non li hanno avuti. Lucio Corsi è ancora troppo fresco di pubblicazione, ma la sensazione è che il panorama musicale contemporaneo sia troppo stanco, ormai, per un salto nello stardom del Marc Bolan della Maremma.

Volendo proprio scandagliare il sottobosco nel modo più completo possibile, si potrebbe aggiungere anche The Niro, che, però, sul più bello, ha voluto passare all’italiano, ma purtroppo ci ha messo altri dieci anni per capire come usare la nostra lingua per fare musica dello stesso impatto rispetto a quella che faceva cantando in inglese. Il disco di quest’anni, finalmente, è perfetto, ma, anche qui, la paura è che il treno sia ormai passato.

La lingua mi permette di agganciarmi al secondo motivo per il quale vedo la situazione molto più complessa rispetto alla semplice promozione della qualità. Parlavo, infatti, della storia della musica italiana negli ultimi vent’anni, nella quale l’aspetto linguistico è di fondamentale importanza. Quando, infatti, si è visto che, all’inizio di questo secolo, la musica che andava per la maggiore era non solo proveniente da Paesi anglofoni, ma anche, e soprattutto, fatta in modo che fosse praticamente impossibile utilizzare nella stessa metriche consone alla lingua italiana, si sono messi tutti a cantare in inglese. Gli unici che hanno avuto le palle di continuare con l’italiano sono stati i già citati Baustelle, evidentemente dotati di visione, di unità interna (quantomeno tra Francesco, Rachele e Claudio) e di convinzione nei propri mezzi.

I problemi, qui, sono stati due. Il primo era dovuto al fatto che, a fronte di progetti riusciti come Yuppie Flu, Giardini di Mirò, News For Lulu, Canadians, Isabel At Sunset, Vancouver, Zen Circus, A Toys Orchestra, lo stesso The Niro, ce ne sono stati molti di più nei quali l’uso impacciato dell’inglese rappresentava un ostacolo sia alla credibilità dell’opera che alla sua stessa fruibilità. Il secondo, dall’altro lato, consisteva nel fatto che gli appassionati erano talmente presi bene dalle varie band citate sopra e da molte altre anglofoni, che, comunque, chi cantava in italiano, e lo faceva bene, come Benvegnù, Moltheni, Ex-Otago, Valentina Dorme, c|o|d, Amor Fou, Thegiornalisti, Le Luci Della Centrale Elettrica, gli stessi Perturbazione, godeva di minori attenzioni a prescindere (non lasciamoci abbagliare dagli hype di cui alcuni di questi nomi hanno goduto, perché erano comunque hype di nicchia, e nemmeno dal successo avuto successivamente, perché, appunto, stiamo parlando di una fase successiva). Si era creata una lose-lose situation: se fai musica cantata in inglese, hai ottime probabilità di non risultare credibile, e se fai musica in italiano hai comunque poca visibilità. L’esterofilia, purtroppo, ha dato un colpo mortale da questo punto di vista.

Perché poi, per sbrogliare questa intricatissima matassa, si è fatto come Alessandro Magno col nodo di Gordio, ovvero si è dato un taglio netto con tutti gli ideali di indipendenza artistica, tra i quali la qualità, e ci si è posti sullo stesso piano della musica commerciale. Il successo è stato clamoroso, la qualità, appunto, è andata a farsi benedire, ed è ora difficilissimo immaginare che qualcuno, tra gli attori chiave dell’ecosistema, possa essere invogliato a promuovere qualcosa che arriva dall’Italia ma a cui mancano gli stessi parametri di chi ha fatto il botto negli ultimi 8-9 anni.

La qualità, qui da noi, non manca, soprattutto quest’anno, grazie ai lavori, oltre che di Lucio Corsi, di The Niro e dei Baustelle, di Studio Murena, Colombre, So Beast, Grimoon, Fabrizio Coppola, Giuliano Dottori, Denise, C+C=Maxigross, Il Tesoro di San Gennaro, e potrei andare avanti. Quale di questi dischi, però, avrebbe le possibilità di essere apprezzato da un pubblico più ampio? Forse Fabrizio Coppola, ma forse, e se nessuna major se l’è preso sotto la propria ala, e nessuna radio lo passa, non me la sento di biasimarli, perché queste attività hanno natura imprenditoriale, mica sono Enti di beneficienza.

Non può arrivare da qui l’educazione musicale per il pubblico, ma devono esserci altre realtà che se ne occupano. Io, negli anni Novanta, sono stato educato da Rock FM e dal Mucchio Selvaggio, e anche un po’ da Silvestrin, ed è in contesti come questi che dovrebbe succedere la stessa cosa anche oggi. Visto che lo stesso Enrico, in uno scambio di opinioni su Twitter, sostiene, giustamente e con piena ragione, che dobbiamo farci meno domande e prenderci più iniziative, dico che, invece di accusare chi non dovrebbe essere deputato a istruire il pubblico, chi ne ha i mezzi dovrebbe creare un’altra Rock FM, un altro Mucchio Selvaggio, un’altra MTV come quella di allora. Ovviamente, con i dovuti distinguo tra 25 anni fa e oggi, per cui ovviamente, al posto del Mucchio cartaceo, ci vorrebbe una presenza forte in Rete, ma forte veramente, non come quella di oggi, dispersa tra mille siti e podcast diversi tra i quali quelli che ottengono più visibilità lo fanno molto spesso perché stanno attenti al SEO e non per la qualità dei loro contenuti.

È possibile fare una cosa del genere? C’è qualcuno che ha i mezzi per farlo e ci sono voci disposte a spendersi in questa causa? Non lo so, non voglio dire che certamente non c’è nessuno, ma dico solo che è così che dovrebbe succedere, che non possiamo accusare chi dirige realtà di un certo tipo, ma dobbiamo crearne altre capaci di farsi ascoltare, come succedeva nel secolo scorso. Purtroppo, il progressivo aumento della facilità di utilizzo della Rete ha creato soprattutto dispersione a questo livello, e dobbiamo essere noi a serrare le fila e lasciare da parte gli individualismi, non pretendere che siano loro a snaturarsi.

L’ecosistema a loro fa più che comodo, e non ha senso pretendere che lo aprano al sottobosco e anche al confronto con ciò che succede all’estero. Ci dovrà essere uno spazio partendo dal quale si può ricominciare, con indipendenza e libertà, a raggiungere adeguatamente il pubblico. Se invece non c’è, e se si continuerà a far fatica nel coniugare qualità e fruibilità, ho paura che siamo fottuti.

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