Scusate il ritardo: luglio 2019
Portare avanti una webzine amatoriale di musica indipendente non è assolutamente facile. Lo si deve fare nel tempo libero, nei ritagli di tempo dopo il lavoro o lo studio, e lo si fa unicamente per passione. È capitato dunque – e continuerà a capitare specie in realtà come le nostre – che durante il corso dell’anno si siano trascurati dischi particolarmente ben riusciti per pura mancanza di tempo. Con questo articolo cerchiamo dunque di rimediare ad alcune nostre mancanze, consapevoli del fatto che molto è ancora da fare.
CLAVDIO – Togliatti Boulevard (2019, Bomba Dischi)
Si è cominciato a parlare di Clavdio, all’anagrafe Claudio Rossetti, sul finire dell’anno passato, quando alla radio il brano Cuore cominciava a spopolare senza limiti e il video dello stesso raccoglieva visualizzazioni su visualizzazioni. Il talentuoso ragazzotto romano si è fatto notare da subito, l’ironia con cui nel brano affronta una tematica comune, ma al contempo personale, come quella dei rapporti di coppia finiti (e di cui non resta un bel ricordo) si veste di una simpatia, ma senz’altro anche di una sensibilità, da non dare per scontato. Tutta colpa del pop vecchia scuola che ci ha abituati a valutare altri aspetti dell’amore! A distanza di qualche mese dalla pubblicazione del suo primo lavoro in studio, Togliatti Boulevard, l’hype continua a mantenersi discretamente alto grazie ai singoli pubblicati successivamente al primo che hanno alzato le attenzioni già esistenti su di lui. Non parliamo di un genio della composizione, sia chiaro, il disco dà prova del fatto che di fronte abbiamo un ragazzo che ha voglia di crearsi un personaggio o che ha probabilmente maturato una voglia di rivincita su se stesso dopo l’esperienza da operaio, chi può dirlo. Indistintamente da qual è la direttiva che Clavdio vuole seguire la segue bene, questo è indubbio (Andrea Martella)
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MÒN – Guadalupe (2019, Urtovox)
Il secondo disco di questo quintetto romano conferma la strada tracciata con l’esordio Zama (2017), fatta di uno stile pop colorato e sognante con un tocco di psichedelia. I brani non seguono la forma canzone tradizionale, ma le melodie sono sempre brillanti ed immediate, e il modo in cui si fondono al sopra menzionato stile crea molte belle vibrazioni che rendono la musica di gran presa e facile da ascoltare. L’esperienza di Giacomo Fiorenza in cabina di regia risulta cruciale nel dare a questo disco un maggior tasso di forza ed efficacia rispetto al debutto. Ci sono tantissime idee dal punto di vista sia melodico, che vocale, che sonoro in questi 36 minuti, e, di conseguenza, troviamo un mood cangiante, con ogni singola emozione e sensazione che risulta ritratta con chiarezza e senza compromessi. Ascoltare i Mòn significa immergersi in un vortice di armonie, ritmi, sbalzi e cambi d’umore, per un viaggio che non può lasciare indifferenti (Stefano Bartolotta)
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DOTS – Weekender Offender (2019, Slack Records)
A distanza di un paio d’anni dal loro debutto, Hangin On A Black Hole, i Dots sono ritornati a maggio, senza fare troppa pubblicità, con un nuovo album. Nove pezzi rinchiusi in appena una ventina di minuti perché, come sempre, la band mantovana “va subito al sodo” e preferisce spiegare il concetto senza aggiungere troppe inutile decorazioni intorno. Anche se la seconda traccia di questo sophomore si chiama Banned From Punk Rock, in realtà le origini rimangono comunque quelle e non vengono nascoste, ma in questo disco ci sono parecchie esplorazioni anche nel mondo hip-hop (basta citare lo scratch iniziale di Information Overdose o i beat di The Story, per capire di cosa stiamo parlando). E, mentre l’iniziale C.S.Y.M. propone atmosfere funky, interessanti spunti li troviamo anche nella strumentale Don’t, in cui i cambi di ritmo sono frequenti e comportano anche una conseguente variazione di umore del brano: nel corso dei suoi due minuti si passa senza problemi da chitarre rumorose a giri di basso delicati, supportati da un drumming leggero. Con Weekender Offender i Dots ci regalano un’altra breve, ma intensa prova ricca di adrenalina in cui riescono anche a esplorare nuovi territori: non vediamo l’ora di assistere a uno dei loro prossimi live-show (Antonio Paolo Zucchelli)
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FERRO SOLO – Almost Mine: The Unexpected Rise And The Sudden Demise Of Fernando Pt. 1 (2019, Riff Records / Fernando Dischi / Area Pirata / Deambula Records)
Ferruccio Quercetti lo conosciamo da ormai tanti anni, sia come frontman dei Cut, storica band bolognese, che come resident dj al Covo Club, mitica venue del capoluogo emiliano: l’esperienza non manca al musicista di origini abruzzesi e alla fine dello scorso anno è arrivato questo suo primo album solista a nome Ferro Solo, prima parte di un lavoro più ampio. Solo sì, ma aiutato da ottimi nomi della scena musicale italiana quali i romani Giuda e membri di Three Second Kiss, Chow e Julie’s Haircut, Ferro fa un viaggio nel mondo nel mondo che gli è più caro, quello del rock. Mentre racconta le sue storie, Ferruccio esplora varie sfaccettature: si inizia il viaggio con It’s A Girl e rimaniamo immediatamente affascinati dalla sua potenza punk e dalla sua esplosività, nonché dal ritornello che, dobbiamo ammetterlo, ci sa prendere subito. Got Me A Job, invece, si sposta su territori post-punk anni ’80, ma aggiunge anche influenze industrial dalla decisa cattiveria; mentre Doppelganger percorre sicuri terreni classic rock, non possiamo che commuoverci davanti alla ballata Gala, disegnata con l’aiuto del piano. Un lavoro valido e solido per un musicista che ha svolto, sta svolgendo e – ne siamo sicuri – svolgerà ancora un ruolo importante per il rock made in Italy: in attesa del nuovo capitolo, promozione a pieni vuoti per Ferruccio (Antonio Paolo Zucchelli)
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DANIELE CELONA – Abissi tascabili (2018, iCompany)
Giunto al terzo disco il cantautore torinese dà vita ad una operazione che prende spunto dalla sua passione per i fumetti. Per questo lavoro Celona ha unito la sua musica ad un progetto di graphic novel che vede coinvolti dieci disegnatori appartenenti al Progetto Stigma; il booklet contiene infatti la reinterpretazione grafica dei dieci brani del disco riuscita, anche a detta dell’autore, con risultati sorprendenti. Musicalmente il lavoro si discosta dalle virate più pop (mi si perdoni il termine) del lavoro precedente (Amantide Atlantide) e si avvicina di più al primo Fiori e Demoni. La presenza di personaggi come PierPaolo Capovilla (la cupa Shinigami) e Paolo Benvegnù (in Maelstrom) riesce ad aggiungere nuovi elementi alla forma canzone a cui ci aveva abituato Daniele. Ascoltando la profonda HD Blue o la punkettona SSRI si viene riportati alle origini, ad un suono grezzo e vivo. La disperazione in I ragazzi dello zoo e in La figlia dell’uomo nero tocca il cuore ma il colpo finale è 24617, dedicata alla madre di Daniele, suonata dalle violoncelliste Bea Zanin e Chiara di Benedetto (già protagoniste del tour V per violoncelli). Il brano trafigge il cuore e ci restituisce un cantautore che sa toccare le corde giuste e riesce ad emozionare e a maggior ragione, con il formato disco-fumetto, “a tutti i livelli” (Raffaele Concollato)
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FIL BO RIVA – Beautiful Sadness (2019, Humming Records / Artist First)
Atteso da parecchio tempo, dopo una manciata di singoli convincenti e un EP, If You’re Right, It’s Alright (2016), il debutto sulla lunga distanza di Fil Bo Riva è arrivato lo scorso marzo: Filippo Bonamici è romano, ma ha vissuto a lungo a Dublino, prima di trasferirsi a Berlino, dove abita tuttora. È valsa la pena aspettare tanto tempo prima di ascoltare il primo disco del musicista italiano? Secondo noi sì: dall’EP l’evoluzione è importante, grazie anche all’aiuto del chitarrista Felix A. Remm e del produttore Robert Stephenson, ma il talento non manca certamente a Filippo. Il suo pop è decisamente raffinato e le sue sfaccettature sono varie, eleganti e soprattutto gradevoli, come abbiamo già potuto sentire nei numerosi singoli anticipatori: Go Rilla, per esempio, dopo aver costruito un panorama sonoro malinconico, ci esalta con il suo ritornello catchy e dai profumi ‘80s, mentre L’Impossibile sembra inizialmente uscita dalla penna di un Justin Vernon ispirato (con il suo autotune), ma in seguito si trasforma grazie a un coro in italiano e a delle bellissime sensazioni degne della migliore tradizione cantautorale tricolore. E se Blindmaker ci porta su sonorità più elettroniche e moderne, Is It Love?, invece, ha sapori molto più british con influenze che vanno dalle morbide melodie beatlesiane alla ricchezza di particolari dei Queen. Ci sono tredici tracce da esplorare, da assaporare e da lasciare entrare nelle orecchie e vale la pena ascoltarle tutte: il primo lavoro sulla lunga distanza di Fil Bo Riva ci è piaciuto e crediamo meriti di entrare molto in alto nelle Top 10 italiane (e non solo) di fine anno. Il ragazzo romano non solo ha saputo raccogliere profumi internazionali per il suo disco, ma è riuscito anche a spruzzare qualche lieve tratto di tradizione italiana nel suo mix: davvero un debutto convincente (Antonio Paolo Zucchelli)
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FRANCESCA GAZA – Lilac For People (2019, Auand Records/ Pirames International Distribution)
Francesca Gaza ha solo 24 anni e scrive musica per un ottetto: nata a Monaco di Baviera da madre toscana e padre tedesco-rumeno, si trasferisce a Siena per studiare alla Jazz University, prima di spostarsi a Basilea, dove frequenta il locale conservatorio. Ad aprile è arrivato questo suo primo album, da lei stessa scritto e arrangiato, composto da ben otto brani. Non fatevi trarre in inganno dalla elevata lunghezza della maggior parte dei pezzi perché, fin dal primo ascolto, le canzoni della musicista nativa della Baviera terranno molto alta la vostra attenzione. La voce morbida e affascinante – vorremmo dire quasi pop – di Francesca vola leggiadra su quel notevole tappeto sonoro composto dai fiati, che creano perfette ed eleganti atmosfere jazz (basta ascoltare la bellissima Lilac, solo per citarne una), ma la Gaza sa anche sperimentare con influenze elettroniche, come accade, per esempio, in Red Box. Una quarantina di minuti in cui la ragazza di origini toscane non ha paura di provare, creare e inventare: il risultato è un puro relax le orecchie di chi ascolta. Il futuro è dalla sua parte (Antonio Paolo Zucchelli)
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PINHDAR – Pinhdar (2018, autoprodotto)
Dopo i Nomoredolls, Cecilia Miradoli e Max Tarenzi, fondatori anche dell’A Night Like This Festival, ripartono con questa nuova esperienza fatta, per ora, di 7 canzoni per 31 minuti. Il duo è abile nel fondere suoni di chitarra e di tastiera per un risultato dalle tinte scure e dilatate, un po’ wave e un po’ dream con qualche reminiscenza Radiohead che appare alle volte. Lo stile melodico si adegua al suono, risultando di facile ascolto, ma allo stesso tempo un po’ sfuggente, e la voce di Cecilia ha il giusto equilibrio tra morbidezza e consistenza in modo che la tonalità un po’ acuta si adatti bene, e anzi contribuisca a creare ulteriori sfumature, ad un suono che, in teoria, rischia di essere troppo in contrasto con questo timbro vocale. C’è anche una buona varietà e più di un momento in grado di sorprendere rispetto a quanto sentito fin lì, per un lavoro fatto di pesi e contrappesi, anche dal punto di vista armonico, al quale comunque non manca l’impatto emotivo; di conseguenza, l’ascoltatore viene letteralmente avvolto e portato in un mondo che sicuramente è già stato esplorato in musica, ma, con altrettanta evidenza, i Pinhdar lo rendono particolarmente accattivante (Stefano Bartolotta)
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JENA LU – Le Dita Nelle Costole (2019, I Dischi Del Minollo / Audioglobe)
Mirko Lucidoni è un musicista abruzzese: ha fatto parte di varie formazioni, prima di fondare, nel 2006, la sua band, laBase. Alla fine di febbraio è arrivato, invece, questo suo primo lavoro solista con il moniker di Jena Lu: si tratta di canzoni nuove, scritte in diversi momenti della sua vita, e usate per questo progetto più intimista e cantautorale rispetto a ciò che è solitamente abituato a proporre con il suo gruppo principale. Il cantautorato ovviamente non vuol dire solo voce e chitarra, ma i dettagli e gli aggettivi sono ben presenti all’interno di questo debutto sulla lunga distanza di Jena Lu: dal rock deciso di La Bamba, impreziosito dal suono del sax che lo decora nella maniera migliore, all’intensità emotiva di Spaziale (scritto da Edda), semplice, ma piena di sentimenti, passando per la lunga e dolorosa E’ Tutto Bello (ottimi i violini nel finale del brano) e della preziosa opening Barad-Dur con le sue percussioni dal sapore moderno, ogni cosa sembra funzionare per il verso giusto. Un esordio assolutamente sincero e pieno di passione che saprà dare la giusta visibilità al musicista di Teramo (Antonio Paolo Zucchelli)
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TACOBELLAS – So 90 (2019, La Barberia Records / Fooltribe Dischi / Koe Records)
Le Tacobellas vengono dalla provincia modenese e si sono formate solo all’inizio del 2018: lo scorso febbraio, dopo una manciata di singoli, è arrivato anche il loro primo album. Valentina Gallini (che già conoscevamo come Avocadoz) e Greta Lodi sono davvero l’adrenalina fatta a persona e – chi le ha già viste live – sa perfettamente di cosa stiamo parlando. Le due ragazze, proprio come quando sono sul palco, non si fanno fermare da nessun timore reverenziale nemmeno su disco e il loro indie-rock al femminile molto ‘90s (come dice lo stesso titolo) è una vera bomba sempre pronta a esplodere, con riff precisi e potenti che hanno fatto guadagnare al duo emiliano paragoni lusinghieri con le Bikini Kills. La lunga Spin ha influenze desert-rock e, per alcuni momenti, risulta essere la traccia più tranquilla del disco (ma non fatevi ingannare!), mentre Cut arriva dritta addosso con il suo ritornello veramente devastante che quasi ci pare di ricevere in pieno volto i colpi che Greta infligge al suo drum-kit. Se Rays Gig apre verso un punk dalle sfumature piu pop, lo stoner duro di Honey sembra voler mettere un sigillo di garanzia sul disco: noi facciamo molto volentieri questo tuffo negli anni ’90 e ci godiamo ognuno di questi esplosivi ventitre minuti, nella speranza che ne arrivino presto altri (Antonio Paolo Zucchelli)
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BRENNEKE – Nessuno Lo Deve Sapere (2019, Vetro Dischi)
Siamo tra i primi e più convinti estimatori del progetto di Edoardo Frasso, e ci piange il cuore relegare questo suo secondo disco qui invece che dargli la recensione estesa che meriterebbe. Ma purtroppo, nella vita, non sempre si riesce a fare ciò che si vuole, quindi accontentiamoci. Frasso, in questa seconda prova, riesce ad ottenere un suono più caldo, profondo, organico e immediato, sempre mantenendo l’ampiezza dello spettro sonoro e la capacità di rendere il tutto sempre fluido e scorrevole. Inoltre, le melodie sono più centrate, il cantato è più efficace, i testi risultano maggiormente evocativi, in grado di far riflettere e sospirare l’ascoltatore e si associano perfettamente con le idee sonore e melodiche. E, badate bene, si partiva dal livello già alto del debutto, ma qui il miglioramento è su tutta la linea e l’interazione tra sonorità da pop moderno e l’introspezione da cantautorato ha un impatto davvero notevole, così, passare dallo struggimento attivo di Compleanno, ai viaggi mentali di Satelliti, all’onirismo inquieto di Incendio, alle evasioni lisergiche di Lasciarsi Alle Spalle rappresenta un viaggio difficile da dimenticare e facile da voler ripetere, ancora e ancora (Stefano Bartolotta)
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THE KAAMS – Kick It (2019, Area Pirata)
The Kaams sono tornati lo scorso marzo con il loro terzo album, pubblicato ancora una volta da Area Pirata e registrato all’Outside Inside Studio di Volpago del Montello (TV) insieme all’esperto Matt Bordin. Il gruppo bergamasco capitanato da Andrea Carminati non dimentica le sue origine garage-rock, ma ampia decisamente i suoi orizzonti con questo nuovo lavoro, spaziando da influenze dal sapore british (The Who, The Kinks, The Jam) – basta ascoltare le ottime Floating My Fantasy e Don’t Forget My Name per capire – ad altre più indie-rock made in USA (come Cold In My Bones). La chiusura con Follow The Sun poi ci sposta su rumorosi territori psichedelici che permettono alla nostra mente di viaggiare lontano. Una mezz’ora davvero gradevole e interessante per il trio lombardo, che, dopo alcuni cambi di formazione, sembra aver trovato in maniera più decisa e convinta le strade da percorrere (Antonio Paolo Zucchelli)
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