Scusate il ritardo: dicembre 2018
Portare avanti una webzine amatoriale di musica indipendente non è assolutamente facile. Lo si deve fare nel tempo libero, nei ritagli di tempo dopo il lavoro o lo studio, e lo si fa unicamente per passione. È capitato dunque – e continuerà a capitare specie in realtà come le nostre – che durante il corso dell’anno si siano trascurati dischi particolarmente ben riusciti per pura mancanza di tempo. Con questo articolo cerchiamo dunque di rimediare ad alcune nostre mancanze, consapevoli del fatto che molto è ancora da fare.
HERSELF – Rigel Playground (2018, Urtovox)
Herself è il progetto solista del palermitano Gioele Valenti, polistrumentista attivo in diverse formazioni. Valenti è un musicista molto esperto, e per questo disco si è avvalso della collaborazione di Jonathan Donahue dei Mercury Rev, e la perizia realizzativa ed esecutiva è senz’altro uno degli aspetti peculiari di questo lavoro. Otto canzoni nelle quali l’influenza più evidente è quella di Sparklehorse, ingentilita da arrangiamenti dal chiaro tocco beatlesiano. L’insieme tra cura del dettaglio, sia a livello compositivo che sonoro, e la ricerca di equilibrio, fa sì che tutti i 33 minuti di questo lavoro abbiano una certa importanza, e risulta facile e appagante lasciarsi cullare dai continui cambi di sfumature sempre logici e coerenti e dalle variazioni sul tema non vistose ma significative. Anche dal punto di vista vocale c’è la stessa capacità di essere versatile all’interno di un quadro di base ben definito, e, in definitiva, questo è un lavoro di alto livello, magari non adatto per essere ascoltato in tutte le occasioni, ma che, se liberato nei momenti giusti, non può che emozionare (Stefano Bartolotta)
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GENERIC ANIMAL – Emoranger (2018, La Tempesta)
Generic Animal pubblica Emoranger, già da qualche mese, ma anche se in ritardo ci andava di spendere due parole sul progetto e sul suo ultimo album, soprattutto per quanto riguarda il mio personalissimo punto di vista. Emoranger risulta essere un album moderno, fresco, giovane e quasi adolescenziale e per chi come me è arrivato alla soglia dei trent’anni, ascoltare un disco del genere potrebbe essere quasi proibitivo. C’è però da dire che Generic Animal può rappresentare una sorta di cantautorato 3.0 che è giusto collocare in un contesto diverso da quello in cui siamo cresciuti un po’ tutti, dando il giusto spazio a qualcosa che seppur trasversale ai gusti personali dimostra comunque una certa originalità ed una leggera innovazione nel sound, differente da tutti quei dischi che escono alla velocità della luce. Emoranger è un disco che piace e rappresenta un determinato periodo storico, che piaccia o no, è la novità che ci si deve aspettare e che tutti vogliamo (magari inconsciamente), e se non si riesce ad accettare una realtà del genere, sarà semplicemente un peccato. I limiti del progetto ovviamente sono abbastanza noti, ma la chiave di lettura per ascoltare il tutto deve essere un’altra, di certo, una chiave contestualizzata e calata in un’epoca diversa da quella in cui i nostri gusti musicali si sono formati. In sostanza, un album giovane che si merita un po’ di attenzione in più rispetto alla mole di dischi che cadono dal cielo ogni giorno (Lorenzo D’Antoni)
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GUIGNOL – Porteremo Gli Stessi Panni (2018, Atelier Sonique)
L’ennesimo cambio di formazione per la band di Pierfrancesco Adduce dove ritroviamo il solo bassista, Paolo Libutti, unico reduce, oltre al titolare, dell’ultima lineup. Accantonati e messi in un angolo i risvolti più sociali in Porteremo Gli Stessi Panni trovano più spazio gli argomenti riguardanti il personale e l’intima ricerca di sé stessi. Il passaggio ad un registro più personale ha portato il gruppo a scegliere delle linee melodiche diverse rispetto al passato, dove l’hammond e le tastiere la fanno da padrone e i tappeti sonori vengono intrecciati più per accompagnare le parole che per incidere veramente. Il cambio di stile è già evidente nel brano di apertura 1979, storia divisa tra ricordi e realtà di periferia che introduce quello che sarà l’album: tastiere, archi e suoni ‘dietro’ la voce mai così in primo piano. I brani si ascoltano con piacere, i protagonisti li conosciamo man mano: sposi per caso/abitudine in Diversi Opposti, Adduce stesso che traccia il rapporto con il padre di Padre Mio, la varia umanità di periferia di 1979 e l’americana di Sei fratelli. Anche questa volta ci troviamo davanti un lavoro coraggioso che conferma che i Guignol hanno ancora molto da dire (Raffaele Concollato)
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GRAND DRIFTER – Lost Spring Songs (2018, Sciopero Records)
Andrea Calvo è un musicista che ha partecipato a diversi progetti, su tutti il tour di Resistenza degli Yo Yo Mundi. Ora, si propone con il moniker di Grand Drifter e il suo primo album è prodotto proprio da Paolo Enrico Archetti Maestri degli stessi Yo Yo Mundi. Il titolo e l’immagine di copertina evocano il contenuto musicale del disco, ovvero canzoni essenziali e introspettive ma non per questo caratterizzate da ombre o sentimenti negativi, piuttosto da una gentile venatura malinconica. Calvo crea tappeti strumentali garbati e senza fronzoli, sia quando predilige il suono scarno della chitarra acustica, che quando, invece, vira su arrangiamenti che mettono insieme la stessa chitarra con tastiere e ritmiche, che quando, infine, la consistenza sonora aumenta all’insegna dell’elettricità. La gentilezza e la genuinità emotiva sono i concetti che guidano questo lavoro, mentre a livello di songwriting c’è un innegabile carattere pop nelle melodie e, dal punto di vista vocale, il timbro è aperto, espressivo e si integra perfettamente con le caratteristiche sonore sopra descritte. Il lavoro scorre bene, c’è un buon elemento di varietà anche all’interno dei tre macro gruppi citati, così l’ascolto è sempre interessante ed è facile apprezzare anche la buona ispirazione melodica, che si mantiene costante per tutta la durata del disco. Niente per cui strapparsi i capelli o saltare dalla sedia, ma un debutto solido e convincente, che, in certe circostanze, come ad esempio un rilassante percorso in collina, può rappresentare la giusta colonna sonora (Stefano Bartolotta)
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THREELAKES AND THE FLATLAND EAGLES – Golden Days (2018, Irma Records )
Lasciata la chitarra acustica da parte, Luca Righi aka Threelakes, mette assieme un lavoro che sposta il suono verso territori che lo avvicinano o più precisamente si immergono, nella cosiddetta Americana genere che ha fatto faville negli anni novanta ma ora si trova (purtroppo) relegato ad un pugno di appassionati. Il progetto Threelakes era nato come laterale a tutto questo: acustico e molto incentrato sul songwriting di Righi, ora l’ago si sposta verso sonorità decisamente più aperte ed evocative degne del Ryan Adams più emozionale (quello di Cold Roses per chi sa di cosa parlo) o del Mellencamp d’altri tempi. Ci si immerge in un fiorire di accordi aperti e chitarre che sembrano viaggiare in grandi spazi: Brothers (molto Tom Petty style), Carol, Places o la conclusiva title track entrano appieno nel genere costellando un album sicuramente accattivante ma decisamente derivativo come sonorità che per chi segue il genere si accoda alla schiera dei tanti emuli italiani(Luca Milani, Tenca, Carugi, Semprini per fare dei nomi) dei beautiful losers americani con l’elettrica a tracolla, certo rimane sempre con il pizzico di originalità che nell’esordio era stato decisamente un bel marchio di fabbrica, però i rimandi sonori lo rendono un lavoro sicuramente in grado di trascinare, ma senza riuscire veramente ad elevarsi dal gruppo (Raffaele Concollato)
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