Intervista – Lazzaro
Lazzaro ha un nome che non può che farci venir voglia di uscire dal sepolcro del weeekend e goderci una meritata resurrezione a colpi di art-rock, come succede nel suo disco d’esordio “Lazzaro“, distribuito da La Rue Music Records e prodotto da Nicola Baronti: un lavoro che apre lo spioncino su una scrittura decisa a raccontare il dissidio interiore di “un uomo fra gli uomini”, portabandiera involontario di un racconto generazionale che merita di essere approfondito, e compreso.
Bentrovato su Indieroccia, Lazzaro! Abbiamo ascolto il tuo disco d’esordio e, che dire, ci è piaciuto parecchio. Quanto tempo hai lavorato ai brani, e come si è sviluppato nel tempo il cantiere di “Lazzaro”, il tuo album di debutto per La Rue Music?
Grazie a voi per questo invito! Sono felice vi sia piaciuto, è un lavoro che ha occupato gli ultimi due anni della mia vita. Il primo mattoncino fu messo tre anni fa quando iniziai a scrivere le prime parole, poi i brani sono arrivati nel tempo, alcune molto velocemente, altre rimettendoci mano più volte. All’incirca dopo un anno di scrittura e pre-produzioni sono entrato in studio da Nicola Baronti e abbiamo iniziato la vera fase di produzione.
Hai deciso di affiancarti ad un’etichetta discografica che ha supportato l’uscita. Oggi, quanto è importante per un emergente avere al proprio fianco una label. In cosa credi sia decisivo, l’apporto di un’etichetta indipendente?
Avere un’etichetta non è essenziale, ma lo diventa se questa mette a disposizione un team di lavoro: è lì che le cose si fanno un pochino più semplici. La difficoltà più grande per un emergente è anche conoscere le persone giuste, e avere una label può essere anche un aiuto per entrare in contatto con realtà diverse, professionisti del settore e altre cose che da solo sarebbe molto difficile realizzare.
Partiamo dall’inizio: come nasce, o meglio, come risorge Lazzaro?
Lazzaro nasce in un periodo di magra esistenziale. Non avevo le idee chiare su cosa fare e la carriera universitaria era finita dopo appena un anno, quindi ho iniziato a lavorare. Poi da una pagina di diario è uscito fuori un primo brano, un secondo, poi ho iniziato prenderci gusto e mi sono ritrovato con un disco in mano.
Il tuo è un esordio, ma pare avere alle spalle un lungo percorso di consapevolezze personali prima ancora che artistiche. Esiste un momento che tu individui come “fondativo” del tuo disco?
È stata una lenta presa di coscienza del fatto che scrivere e suonare andavano a prendermi sempre più tempo e ad un certo punto ho deciso di trovare un metodo, una regolarità. Se vogliamo trovare un evento iniziatico ci possiamo mettere una crisi di nervi dopo una serata alcolica di cinque anni fa, che magari ha fatto da apripista a molti ragionamenti che nel tempo mi hanno portato a questo disco.
Hai lavorato in studio con Nicola Baronti: ci racconti come sono avvenute le registrazioni dei brani, e cosa ti ha colpito del modo di lavorare di Baronti?
Oltre alla grande capacità al piano, nel pensare arrangiamenti per più strumenti, forse la cosa che mi ha colpito di più è la concentrazione che ha in studio. Mi ricordo che il primo giorno in cui ci siamo conosciuti lui stava editando qualcosa, io entrai, salutai: silenzio. Si accorse di me dopo un’oretta. Poi in realtà abbiamo parlato a lungo, ma quel metodo così immersivo è una cosa che mi colpì subito. Ora mi capita pure a me a volte di starmene lì a suonare, ad appuntare cose, per poi rendermi conto che sono passate ore.
L’album presenta una track-list evocativa, che in qualche modo sposa la rabbia dell’invettiva, la disperazione della fine e un’insanabile voglia di rinascita. Credi esista, su tutti, un concept, un’idea che ha segnato il passo e l’evolversi di “Lazzaro”?
La rinascita è più una conseguenza del disco. A posteriori direi che un altro tema centrale del disco è anche la responsabilità, o per meglio dire il senso di responsabilità. È vero che il disco parte sempre da un certo malessere, ma spesso mi interrogo su quanto io sia responsabile, quanto ci sia ormai legato ad una certa condizione vittimistica, e quanto ci sia effettivamente di cause esterne.
Esiste, su tutti, un brano am quale credi di essere maggiormente legato, una canzone che senti per te “catartica”?
Penso che il brano più catartico sia “Fears”. Ogni volta che canto il ritornello è come se mi togliessi un peso dalle spalle, mi sento sempre più leggero. Il brano è tutto un dialogo interiore sulla paura e il ritornello è il momento della riflessione in cui tocco il fondo, e quell’urlo è un po’ il “vaffanculo” a tutto, il punto che serve ad un discorso per ripartire.
Ecco, la parola “catarsi” è effettivamente utile a raccontare il desiderio che pare celarsi, in fin dei conti, dietro tutto il disco. Da cosa sentivi di doverti liberare quando hai cominciato a lavorare a “Lazzaro”?
Niente di preciso a pensarci bene, quello che sicuramente stava alla base era una necessità di esprimersi, ma non tanto con gli altri quanto con me. È stato come fissare dei mementi e rivederli a mente fredda, per analizzare meglio. Il disco coincide con la ricerca, la selezione è iniziata dopo. Ora comunque mi sento più leggero.
E credi di esserci riuscito davvero, a risorgere?
“A canzoni non si fanno rivoluzioni”, ma sicuramente qualcosa di buono mi ha fatto. Ripeto: mi sento più leggero, già questo mi basta.