Intervista: Jonathan James Clancy

Abbiamo sentito Jonathan James Clancy in occasione del suo primo disco solista Sprecato (Maple Death).
Ci ha raccontato come ha affrontato il periodo profondamente ‘scuro’ dove la sua vita ha subito diversi cambiamenti sotto molti aspetti e cosa e come ha composto i brani di un lavoro sicuramente maturo e d’impatto.

IR: partiamo dalla copertina di Sprecato e dalla tua collaborazione con Michelangelo Setola. Le sue graphic novel sono oscure, scava molto nel profondo nelle sue storie e questo si sente anche nel disco. L’hai conosciuto prima di persona o dopo aver scoperto i suoi lavori?

JJC: No, guarda, abbiamo un rapporto proprio personale.
Michelangelo è un amico da una vita. Da anni faccio le traduzioni per i libri di Canicola(casa editrice ndr), che sono degli amici e che sono i suoi editori. Tra l’altro hanno l’ufficio nella porta accanto alla mia e abbiamo sempre fatto sinergie tra Maple Death e Canicola.
Al di là di questo, Michelangelo è proprio una di quelle persone che frequento. Andiamo a cena o bere e quando nel 2017 ho avuto un anno un po’ difficile, di cambiamenti sia dal punto di vista affettivo che di lavoro per uno come me molto organizzato e saldo nelle cose, ero spaesato. Stavo vivendo a Londra e venivo dal fare 100 date all’anno con His Clancyness al non suonare più, non ne avevo proprio più voglia.

Lui conoscendomi bene ha pensato di dirmi: “ti mando delle tavole e se ti va di scrivici sopra della musica”. Così abbiamo iniziato ad ispirarci a vicenda.
Avevo solo una chitarra acustica e un sintetizzatore e componevo in base a quello che mi inviava.

Da una sono diventate 4 o 5 alla volta, poi pagine complete e io ho riiniziato a scrivere e a buttare giù delle idee, dei frammenti di un minuto o due che poi gli rimandavo.

Questo mi ha aiutato molto a ritrovare il piacere di scrivere e l’abitudine nel farlo in una maniera molto libera, non sapevo che cosa dovesse diventare questa cosa. Non ho neanche pensato ad un disco.
Tutto questo è continuato per un anno circa, finché poi il suo libro ha preso forma e poi è uscito in stampa. Poi abbiamo iniziato anche a fare dei live assieme dove lui disegnava e io improvvisavo molto liberamente.

Tutto questo l’ho poi rimesso assieme in parte staccandomi da quello che era il suo libro.

Ovviamente lui ha curato tutto l’artwork e ci sono dei pezzi che quando li visualizzo penso proprio a delle scene di quel suo libro.

IR: ma poi nel live verranno proiettate le sue tavole?

JJC: l’idea c’è di fare alcuni live assieme, dipenderà dalle situazioni. I live saranno in quartetto, se le location lo permetteranno cercheremo di coinvolgere anche lui che disegnerà dal vivo, altrimenti credo avremo dietro di noi delle immagini sue.

IR: riguardo i singoli che hai fatto uscire li ho trovati molto diversi uno dall’altro, come tutto l’album del resto. Lo hai fatto per cercare i brani più significativi del lavoro?

JCC: il criterio è stato di scegliere le coppie di pezzi con lo scopo di far sentire entrambi i ‘binari’ diversi su cui, nella mia testa, scorre il disco. Quindi ne ho scelto uno più cantautorale o comunque legato al folk, un folk che identifico fatto con la chitarra elettrica, anche psichedelico e dall’altra volevo che il ‘lato B’ del singolo fosse sempre invece la parte più elettronica/ambient.

I miei gusti, ormai dopo diversi anni si sono cementificati in queste due direzioni.

Già da prima quando volevo fare il disco avevo quest’idea di cercare di fondere al massimo quelli che sono poi i miei due amori più grossi, sia come ascolti che per le due cose in cui mi sento più a mio agio.

Il collante di tutto volevo fosse la voce, il disco, come hai detto, è molto dinamico, ha molte sfumature diverse, anche che sembrano molto apparentemente distanti, volevo che fosse la voce a tenerlo assieme.

Quindi la scelta dei singoli non è troppo dettata sul pezzo “giusto” che diciamo non esiste per il genere che faccio, poi i pezzi sono tutti anche molto lunghi e non era facile scegliere un brano “immediato”.

IR: sì certo “il singolone”.

JJC: Esatto non esiste! Volevo solo che raccogliessero e raccontassero bene l’anima del disco.

IR: anche mettere delle parole in italiano all’interno dei testi è venuto in modo consapevole o naturalmente?

JJC: mi è venuto naturalmente, forse ispirato dai testi delle tavole di Michelangelo. Principalmente nell’ultimo singolo, Castle Night, che apre il disco ed è il primo pezzo che ho scritto, fino all’ultimo avevo una versione tutta in inglese ma non ne ero convinto. L’ho rifatta inserendo le parole in italiano.

Mi piace l’idea e me l’hanno già detto diverse persone che mentre la stanno ascoltando non se ne rendono conto, ma poi dicono:”Eh cosa cos’era che la roba?” e la riascoltano per capire.

IR: è una cosa che ho sentito fare a Vipera, una ragazza che testi un po’ in inglese poi ci inserisce l’italiano, molto particolare, anche per le tematiche.

JJC: la conosco di nome, anche perché ci sono dei miei amici che suonano con lei, ma non l’ho mai ascoltata, lo farò.

IR: quanto è stato importante Stefano Pilia per il suono del dell’album?

JJC: il disco l’avevo già registrato da solo al 60 / 70% ma non riuscivo mai a terminarlo, fondamentalmente ero ossessionato dall’idea di far tutto da solo, la vivevo come una sfida con me stesso.
Ad un certo punto mi sono reso conto di non riuscirci e di dover trovare una persona adatta, ma non era semplice.

Con Stefano abbiamo un’amicizia che parte da quando eravamo ragazzi, lui suonava nel mio primo gruppo, i Settlefish, quindi uno dei primi nomi a cui ho pensato è stato il suo. Avevamo lo studio attaccato e coinvolgerlo è venuto naturale.

Ci siamo trovati subito in sintonia, quasi senza dover parlare. Il suo apporto è stato fondamentale soprattutto sulla voce, poi con la sua super strumentazione  mi ha aiutato a dare quella coesione che io non riuscivo ad ottenere.

Mi ha aiutato anche a scegliere chi doveva suonare, ad esempio ci serviva un flauto e abbiamo scritto Enrico Gabrielli, quando ci serviva un pianoforte a Francesca Bono e così via per tutti quelli che hanno collaborato al disco
Infine ha mixato il disco con me accanto, dandomi quella sicurezza che mi ha permesso concentrarmi  sulla voce, senza dover pensare al resto.

IR: quale brano ti ha dato più difficoltà? Sia emotivamente che praticamente.

JJC: emotivamente sicuramente I want you, secondo pezzo del disco, è un brano difficile perché il testo mette insieme i personaggi all’interno del libro di Michelangelo che poi traslo su di me, rispecchiando le angosce e l’umore di dover lasciare a casa un figlio piccolo per i miei avanti e indietro da Londra.

Invece dal punto di vista ‘tecnico’ direi Out and Alive. Nato come un magma di 20 minuti che poi ho completamente trasformato. Adesso forse è il mio pezzo preferito. L’ho smontato e rimontato 20 volte fino ad arrivare a quello che è adesso.

IR: quanto ha influito essere diventato padre?

JJC: ho due figli piccoli e mi ha cambiato tutto. Se sei un musicista devi imparare ad organizzarti meglio ed essere efficiente in poco tempo. Per come lavoro io ho con “il motore sempre acceso” ho dovuto cercare di prendere tutto il tempo possibile, staccare da tutto e dedicarmi solo alla musica che è la mia droga. Passare da ‘qualsiasi momento’ a tempi risicati non è stato semplice ma devi cercare di incastrare tutte le cose e questo sicuramente è anche uno dei motivi per cui ci ho messo più tempo a finire il disco. Però mi ha permesso anche di essere molto più focalizzato sul risultato non potendo permettermi di perdere tempo.

IR: pensavo anche dal punto di vista della composizione. Perché, insomma, avere dei figli ha una responsabilità e hai tante paure, pensieri, quanto di questo si è riflesso nei testi?

JJC: quello sicuramente e lo senti in molti frammenti di testi. Causa anche ad un inizio difficile, in cui eravamo in città separate ne ho sicuramente risentito.
A ripensarci ora credo di aver maturato uno sguardo sui testi più “universale”, vedendo le cose da più lontano, quasi dall’alto rispetto all’io e al tu che c’erano nei testi dei dischi precedenti. La forma di canzone molto aperta che ho usato in questo disco e con questa voce tipo “mantra” credo sia uscita da quello che ci stava “sotto”.

IR: chi suonerà con te nei live?

JJC: saremo in quattro. In questo momento ci sono Dominique Vaccaro(J.H. Guraj), Andrea De Franco alla batteria (Fera) e poi c’è Laura Agnusdei che suonerà il sax.

In quattro era il minimo, anche perché il disco ha tantissime sfumature con una strumentazione abbastanza varia, quindi ci incrocieremo tanti strumenti anche per cercare di dare tutto lo spettro sonore del disco.

IR: Ma il sax è la prima volta che la usi in un disco?

JJC: Allora l’avevo usato nell’ultimo disco di His Clancyness in due pezzi. Questo disco qui non ero partito con l’idea di sax, ma il primo pezzo che ho scritto, che è stato Castle night, dopo che Michelangelo, mi aveva mandato una tavola, l’ho composta proprio come si sente sul disco. Ho mandato il brano il giorno dopo a questo mio amico canadese Kyle Knapp con cui mi scrivevo in quei giorni e lui me lo ha rimandato con quei sax che senti in apertura del disco.

IR: mentre prendeva forma il disco hai condiviso il materiale con qualcuno o l’hai tenuto molto privato?

JJC: No, l’ho tenuto per me fino al mix finale e poche persone sapevano che stavo lavorando ad un disco, non sono abituato e avendo anche l’etichetta lo sono ancora di più ad essere focalizzato sulle uscite degli altri e quindi a volte mi dimentico delle mie cose e non ci pensavo neanche a condividere con altri.

IR: quanto ti assorbe la Maple Death?

JJC: l’etichetta mi assorbe tantissimo come altre cose, perché poi per far stare tutto assieme faccio anche altro. Per fortuna il mio disco non lo seguo io come promozione, quella l’ho affidata ad altri e riesco a concentrarmi sul resto.
Poi dopo ho provato a cercare di fare in modo che questo periodo sia scarico su alcune cose, in maniera da potermi concentrare sui live.

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