Intervista – Ibisco
Ha recentemente pubblicato il suo disco d’esordio “Nowhere Emilia“, un grido di rabbia che si alza dalla provincia emiliana e punta a conquistare tutto il Belpaese, corroborato da un tour che lo porterà in giro ad incontrare tutti i “fedeli alla linea” di un progetto musicale che sa già di “cult”: Ibisco è uno dei nuovi protagonisti della scena sotterranea (ma neanche troppo) italiana e ha appena partecipato al format ideato da Back To Futura e La Jungla Factory “Back To La Jungla”, un catalogo di live session e approfondimenti musicali dedicato al panorama emergente nazionale e fortemente voluto da Incontri Esistenziali, realtà culturale attiva dal 2015 nella valorizzazione della cultura e dell’incontro.
Insomma, quale occasione migliore di questa per scoprire l’inedita versione acustica di “Chimiche” e fare due domande all’artista emiliano?
Benvenuto su Indieroccia, Filippo. Ascoltiamo la tua musica da tempo, e come prima domanda non possiamo che partire da una curiosità “poetica” che conserviamo da tanto: da cosa deriva il tuo nome d’arte?
Inizialmente ero orientato sul mio cognome, salvo poi appurare che fosse già in uso. Ho virato su un altro fiore che sembrasse da subito perfetto. Ha le stesse vocali poste nel medesimo ordine di Filippo e Giglio, il suo lato pittoresco produce un intrigante contrasto con la mia estetica e suona vetroso, quasi “spagnoleggiante”.
Come nasce il progetto Ibisco? La gestazione del disco sembra essere cosa avvenuta nel tempo, e non nel “lampo” di un attimo, come succede a tanti progetti lanciati oggigiorno sul mercato…
Ho iniziato a scrivere i primi pezzi del disco nel 2018. L’anno successivo sono entrato in studio con Marco Bertoni e abbiamo lavorato per quasi un anno e mezzo. C’è stata attenzione maniacale nell’evitare di essere compiacenti e ammiccanti. A causa della pandemia si è un po’ temporeggiato per l’uscita dell’intero album e, ovviamente, nel mentre abbiamo “aggiornato” qualche produzione e aggiunto brani come “Luci”, l’ultima arrivata.
Tra l’altro, hai lavorato in studio con un nome piuttosto conosciuto nell’ambiente culturale italiano… ci vuoi raccontare com’è nata la collaborazione con Marco Bertoni?
Ho conosciuto Marco circa 8 anni fa, collaborammo ad alcuni brani che scrissi con le tipiche band delle adolescenze musicali. Ho trovato fin da subito la sua visione perfettamente sovrapponibile alla mia, è stato certamente il mio mentore artistico.
Cosa ti viene in mente se ti dico “periferia, provincia, pianura”.
Il tratto autostradale di Bologna, un film neorealista, un quadro di Sironi, i viaggi verso Padova.
Nel corso dell’ascolto dell’album, è impossibile non trovare una coerenza ben precisa a livello stilistico tra tutti i brani di “Nowhere Emilia”: quali sono stati gli ascolti che più hanno segnato la produzione artistica del tutto?
Tra i tanti riferimenti spiccano MGMT, The Horrors, C.S.I., ma anche musica elettronica e techno.
Tra le varie influenze, emerge sicuramente quella dei CCCP e delle linee melodiche eteree e dispotiche di Lindo Ferretti. C’è qualcosa in Emilia che rende ancora inevitabilmente “paranoica” la visione che si finisce con l’avere del luogo, se vissuto veramente?
Giovanni Lindo Ferretti è certamente un riferimento importante. L’Emilia possiede quell’immancabile sensazione di scivolamento verso la pianura capace in qualche modo di fare atterrare se stessi all’interno del più totale nulla. Credo sia proprio questa sensazione di smarrimento a formare il tipico stato di inquietudine e, appunto, paranoia.
Sei tornato con una live session particolare, che ci ha fatto venire voglia matta di live. Forse alcune canzoni riescono a ritagliarsi un certo spazio interpretativo ancor più se in versione acustica e minimalizzata; quali sono le differenze emotive, oltre a quelle più evidenti di arrangiamento, tra il suonare in band e trovarsi da solo a reggere un brano, magari davanti ad un pubblico e non solo in video-live?
Sono da sempre grande ammiratore delle doppie vite delle canzoni, del loro avere un orizzonte “pubblico” fatto di complessità sonora e stile in totale contrasto con le esclusive versioni scarne, più adatte a contesti dal sapore minimale. Per quanto mi riguarda l’intensità espressiva rimane la medesima, anche se in situazioni unplugged emergono maggiormente gli aspetti relativi alla forma canzone e in generale alla stabilità dell’opera rispetto alla presenza o meno della produzione. Detto questo, io adoro le tracce in cui non vi sia margine di scollamento tra opera in sé e produzione; sebbene da un lato questo implichi una certa difficoltà di performare in acustico, dall’altro risulta innegabile che questo approccio rappresenti lo specchio del nostro tempo e quindi del progresso in termini di ricerca musicale.
Dacci tre consigli d’ascolto, facci scoprire qualche progetto musicale che magari ancora non consociamo abbastanza.
DIIV, The Horrors e Teen Suicide. Anche se penso che li conosciate già abbastanza.