Interview – The dark side of Bologna

Siamo nel 2016, eppure gli echi degli anni ’80 non ci hanno mai abbandonato. Molti sono i gruppi nati in quegli anni che hanno segnato le nostre vite da ascoltatori compulsivi e appassionati, e hanno influenzato le band nate successivamente. The Cure, Joy Division, Bahuaus, l’elenco potrebbe andare ancora avanti, ma fermiamoci qua. Da anni, poi, la scena bolognese si sta rivelando davvero interessante: diverse sono i gruppi che sono partiti dal post punk, dalla new wave, rielaborando con personalità e stile questo genere, giungendo, infine, a dargli una propria impronta. Spesso, all’interno degli stessi nascono collaborazioni e progetti interessanti (come potrete notare dai nomi). Così, mi sono posta due domande, ma ho voluto che a dare una risposta fossero proprio gli artisti bolognesi, coloro che questo genere lo suonano e lo “vivono”.
A risponderci sono:
Caron Dimonio (Giuseppe Lo Bue, Filippo Scalzo)
The Black Veils (Gregor Samsa, Filippo Scalzo, Mario d’Anelli)
European Ghost (Cristiano Biondo, Giuseppe Taibi, Mario d’Anelli)
BeStrass (Leonardo Cannatella, Iacopo Palasciano, Francesco Brasini, Lorenzo Brogi)
Two Moons (Giuseppe Taibi, Angelo Argento, Emilio Mucciga)
Dade City Days (Andy Facchini, Mara Gea Birkin, Michele Testi)

Photo Courtesy: Roberto Olivadoti

Perché questo genere sopravvive ancora dopo più di un ventennio rispetto alla sua nascita? Ha subito o sta subendo delle evoluzioni rispetto alle sue origini?

Giuseppe Lo Bue (Caron Dimonio): penso che ci sia stato un calo di interesse durante gli anni 90, tutto quello fatto nel decennio precedente ad un certo punto appariva erroneamente come “superato”, demodè, mentre invece c’è stata molta sperimentazione. Negli anni 2000 (parlo a livello di mainstream, negli ambienti alternativi la dark wave era comunque viva) la comparsa di gruppi come Interpol, Editors o White Lies hanno riacceso l’interesse di molti curiosi per quel periodo. Come per tutte le cose c’è chi ha compreso la lezione, l’ha fatta propria e continua seguendo una propria strada, personale e ispirata, altri la ripropongono senza troppa fantasia.

Giuseppe Taibi (Two Moons, European Ghost): Probabilmente perché è un genere diretto e immediato, dove molti si identificano e protestano un certo stato di malessere contemporaneo. Negli anni ha continuato a sopravvivere, perché c’è stata una ricerca (meticolosa, a volte inconsapevole) di nuove soluzioni, rimettendo in discussione le strutture, i suoni e modi di cantare, se non fosse stato così, il genere postpunk si sarebbe estinto da un bel pezzo. Da trent’anni a questa parte, per fortuna, ci sono state delle evoluzioni sottili che pur restando nell’estetica del genere, ci sono stati approcci intelligenti (dall’elettronica, a nuovi  effetti, a nuovi strumenti, ecc..) che ne hanno arricchito e stimolato il genere.

Leonardo Cannatella (BeStrass): tra l’epoca di cui si parla e ora appunto è passato molto, e credo che gli anni ’90 siano stati, in un modo o nell’altro, un proprio revival dei ’70, mescolato a intenzioni ritmiche più moderne, partorendo un vero e proprio genere alternativo al rock più classico. Il Grunge ne è una prova schiacciante.  Questo ha portato ingannevolmente a pensare che sonorità’ del periodo post-punk/new wave fossero sommerse da queste ultime. Forse sui grandi schermi. Ma sicuramente l’underground ha conservato in vita fino ad oggi certe atmosfere e colori senza farle mai affondare. Motivo per cui esistono ancora band che senza evoluzioni particolari ricalcano quelle orme in modo direi schematico e religioso e chi invece ne prende dei piccolissimi ma evidenti spunti.

Emilio Mucciga (Two Moons): Mi viene subito da pensare “Qualcuno il PRE, qualcuno è il POST senza essere mai stato niente“, citando il miglior Ferretti. Per rispondere a questa domanda bisogna fare prima un ragionamento su cosa sono i generi musicali. I generi musicali sono definizioni che vengono ideate quando qualcosa di dissonante viene ascoltato. Non riuscendo a classificare la band o i brani su cose già ascoltate, si scelgono terminologie che li rappresentino. I “nuovi” generi per un periodo diventano “moda/tendenze” per poi, inevitabilmente, quando le “mode” cambiano, diventare “cult” e poi negli anni nicchia. Succede per tutti i generi musicali, blues, soul, rock n’roll, darkwave, classica, ecc. Il “post punk” è una terminologia volutamente generica, in quanto in essa rientrano suoni e contenuti che, pur riconducibili al punk, si sono evoluti su binari diversi. Non ho mai amato etichettare le band. La musica è solo musica, che a sua volta è “semplicemente” un mix di contaminazioni, intuizioni. Trovo riduttivo volerla classificare. Ma per rispondere alla domanda riferita al post-punk, inteso come movimento musicale che conosciamo attraverso le band che ne hanno fatto parte, ebbene non è mai morto. Come tutti i generi musicali si è evoluto, non nel senso letterale di “migliorato”, semplicemente (come detto sopra) ha subito altre contaminazioni che inevitabilmente ne hanno alterato le linee.

Andy Harsh Facchini (Dade city days): Di evoluzioni ne ha avute tante, e credo sia questo fondamentalmente il motivo per cui continua a essere in vita. Il darkwave ha da sempre allargato i propri confini, è un genere molto vasto che idealmente può racchiudere band anche molto diverse tra loro. Vive oramai sempre più nell’underground e se in periodi come questi ha più spazio e più visibilità è fondamentalmente per un mainstream che non è più così tanto schiacciante (pensiamo alla MTV generation degli anni ‘90). L’unico vero problema per questa scena è che manca il cambio generazionale, l’età media è sempre più alta e questo lo porterà a essere sempre più di nicchia.

Gregor Samsa (The Black Veils): Io non credo che il genere “sopravviva”, al massimo credo che, come ogni cosa, si trasformi. È davvero difficile poter fare discorsi sui “generi” o parlare di “post-punk” nel 2016. Se il termine risultava labile all’epoca della sua ascesa, figuriamoci adesso. Credo piuttosto che si guardi molto al passato perché negli ultimi anni non ci sono stati gruppi che hanno riscritto significativamente le regole. Mi spiego meglio: band come The  Sound, Talking  Heads,  Devo, Siouxsie  &  The  Banshees  hanno,  ognuna  in  un  modo personalissimo  e  unico,  risemantizzato  le  proprie  influenze  (dai  Beatles  ai  Sex  Pistols,  mischiando decisivamente  le  carte  in  tavola  in  un’epoca  in  cui  il  “rock”  e  il  “pop”  scoprivano  ancora  mille  proposte diverse. Prendiamo, invece, Turn on the Bright Lights degli Interpol. Quest’ultimo, ormai, è considerato – e a ragione – una pietra miliare degli anni Duemila, ma di fatto è stato amato dal pubblico e dalla critica perché ha proposto una formula  già  rodata  in  un  contesto  storico  diametralmente  opposto.  Di sicuro è stata la personalità degli Interpol degli esordi a rendere unico quel disco, ma non c’è stato bisogno di inventare un suono o sperimentare combinazioni inusuali, quanto la voglia di riproporre un universo sonoro. Il punto  è  questo:  l’evoluzione  sta  nella  personalità.  Nel  2016  credo  che  ogni  band  del  pianeta  si  ispiri  a qualcun altro in maniera significativa. A meno che non ci si immerga in mondi davvero astrusi e dalle infinite possibilità (come fa il mio amico Daniele Santagiuliana con i Testing Vault), tutta la musica risente degli echi del passato e delle tappe decisive che l’hanno caratterizzato: le possibilità non sono più così sconfinate e il pionierismo non è più tale. La chiave dell’evoluzione di un genere, se di genere si vuole parlare, sta nella personalità che si esterna nell’approccio ad esso e che si sacrifica alla composizione. Basti ascoltare i Moon Duo, i Girls Names, i Future Islands o i Twilight Sad: tutti gruppi che hanno saputo dare un valore aggiunto a un universo musicale ben radicato. Per quanto riguarda i Black Veils credo che sia stato decisivo un approccio meno ortodosso. Nelle nostre canzoni c’è tanto “pop” perché, semplicemente, ci piace una certa immediatezza. Non ci sono dietrologie: solo una spontanea voglia di fare le cose in un certo modo e nessuna decisione presa “a tavolino”. Questa è la nostra visione del “genere”: suggestioni spontanee assecondate in toto nel momento stesso in cui nascono e che partano da un mondo che, semplicemente, amiamo.

Mario d’Anelli (The Black Veils): Non si può certo dire che il post-punk sia sopravvissuto. Tutto ciò che è venuto dopo il ’77 è sempre stato di grande attualità: modulazioni di un suono in continua evoluzione. Ecco, questo è il punto. ciò che è successivo e contrastivo rispetto al punk non è altro che un suono, un’onda che vibrava e lo fa tuttora. Infatti oggi come quasi quarant’anni fa, post-punk non definisce un genere musicale ben preciso, ma identifica un filo rosso che leghi stili affini ma divergenti. Basti pensare a come quelle stesse band, che per prime hanno plasmato quel tipo suono, siano riuscite a produrre album a volte inconciliabili sotto la stessa categoria di genere. Parlando invece della situazione italiana attuale, è chiaro come ogni gruppo stia producendo la propria musica uscendo dai canoni di sola devozione e riverenza, assumendo suoni più dilatati o più grezzi, liriche in lingua inglese o in italiano, suoni elettronici o più acustici e altre variazioni in una chiave maggiormente personale. Quindi, riassumendo, ciò che è post-punk vive (e non sopravvive) perché in inarrestabile trasformazione.

Esiste oggi una scena post punk italiana e nello specifico nel  bolognese? Se sì, come siete entrati in contatto con essa?

Giuseppe Lo Bue (Caron Dimonio): sì una scena c’è, il proliferare di tutte queste band, non solo a Bologna, ne è una prova. Da 5 anni a Bologna è nato Atmosphere, un format che si ispira alla dark wave attorno cui queste realtà si muovono di cui sono il coordinatore. Molte sono le band che abbiamo ospitato, non solo Bolognesi ma di tutta l’Italia ed estere, e molti sono gli affezionati ai nostri eventi. Continuiamo su questo percorso nel modo più spontaneo possibile, facendoci guidare dalla semplice passione per la musica. Ovviamente quando si parla di Dark a Bologna o in Italia si parla di una nicchia ristretta, ma è anche il suo bello.

Cristiano Biondo (European Ghost): Forse più che una scena comune esiste un sentire e affinità che accomunano molti gruppi. Una sensibilità verso sonorità malinconiche, la passione verso un certo modo di fare artigianale e curato di creare musica, scevro da mode preconfezionate. Riconosco in molti gruppi bolognesi della new wave, pur con le proprie peculiarità, la volontà di emozionare, di trasportare in altrove estetici nel viaggio di una canzone. E’ poi sorprendente, ma non troppo, che età diverse, provenienze lontane abbiamo portato tutti questi gruppi verso tale direzione, per una Bologna che dopo il 2000 si era dimostrata molto in ritardo rispetto ad altre realtà locali. Per alcuni anni, ascoltare questa tipologia di musica era diventato più facile spostandosi in Veneto o Lombardia. Speriamo che la fiamma preziosa della nuova onda wave non si spenga.

Leonardo Cannatella (BeStrass): la scena post punk bolognese è a mio parere molto attiva e questo lo determina il fatto che negli ultimi anni sono nate delle realtà alternative come Atmosphere dove artisti non solo locali portano la loro musica legata ai cupi ’80. Con gioia ho visto nascere e crescere a Bologna molti gruppi compresi Bestrass fondati da me tre anni fa o come i We Are Not Pop Music, Black Veils, European Ghost, Caron Dimonio per citarne alcuni. Ed è solo l’inizio!

Giuseppe Taibi (Two Moons, European Ghost): Esiste una scena musicale eccellente in Italia e Bologna è una delle più prolifere. Ogni giorno scopriamo band di ogni genere che meriterebbero altri più importanti palchi. Le band post-punk sono tra quelle che inevitabilmente ci piacciono di più per assonanza di gusti. Riallacciandoci al discorso, contesto e momento storico, molte delle band di oggi faticano ad emergere, mentre negli anni ‘80 avrebbero spopolato, aiutate dal fatto che la gente si fa molto condizionare dalle tendenze del periodo. Al momento bisogna accontentarsi di allargare la propria nicchia e continuare a fare quello che si ama fare … musica.

Andy Harsh Facchini (Dade City Days): In Italia c’è molto più movimento in questo genere di quanto ci si aspetti, gruppi come gli Ash Code, Schonwald, Dark Door hanno avuto un ottimo seguito anche in Europa, e ne sto citando solo alcuni. La scena di Bologna credo sia stata costruita anche da chi è venuto da fuori. E’ sempre stata la meta preferita dagli studenti di mezza Italia e molti di questi hanno portato avanti anche i propri progetti musicali, con nuove band e nuove serate, che hanno portato sicuramente linfa nuova. Penso a serate come il Decadence, Atmosphere, Obscura, Freakout, dove la programmazione durante l’anno è sempre ricca di sorprese.

Gregor Samsa (The Black Veils): Utilizzando il termine “scena” spesso si rischia di fargli coincidere un “senso di appartenenza”, che è sempre molto limitante e mai davvero utile ad una crescita umana e professionale, ma di sicuro negli ultimi anni, in Italia,  è  germogliata  una  famiglia  di  musicisti  che  si  è  ritrovata  a  condividere  l’amore  e  la  devozione  per l’universo di cui parlavo precedentemente. La cosa stupefacente, a mio parere, è che ognuno dei gruppi in questione possiede un approccio unico, per il quale la diversità diviene un valore aggiunto. Puoi spaziare dal suono cupo e ossessivo dei Geometric Vision e degli Ash Code a quello più atmosferico ed evocativo dei BeStrass,  passando  per  il  graffio  elettronico  dei Two  Moons  e,  addirittura,  per  i  rituali  folk-ancestrali  dei Murmur Mori. A Bologna, d’altro canto, è nato un vero e proprio “collettivo” che ha come unico collante l’amicizia e l’affetto. Non c’è altro e, da un certo punto di vista, è un peccato: sono piuttosto sicuro che una mente imprenditoriale – quale io non sono – riuscirebbe a ricavarci qualcosa di interessante da espandere su più larga scala, dati i presupposti. Tutto ciò che c’è da sapere, per il momento, è che a Bologna c’è tanta bella gente a cui, semplicemente, piace creare musica propria. Forse è nato tutto con Atmosphere, il “format”, se così possiamo chiamarlo, di Giuseppe dei Caron Dimonio, forse è stata semplicemente l’evoluzione naturale delle  cose.  La  cosa  più  bella  è  che  la  maggior  parte  di  noi  ha  una  grande  considerazione  dell’altro  e  che siamo sempre pronti a darci una mano. Si lavora senza grandi mezzi e con grande fatica, ci si investono soldi e sudore, ma ci si spalleggia, si condividono palchi e concerti, si contribuisce l’uno all’album dell’altro e, alla fine,  quella  che  sembra  contare  davvero  è  sempre  la  musica.  Può  sembrare  banale  e  un  po’  retorico,  ma quando sei immerso in questo ambiente nulla è più così scontato e trovare persone passionali e genuine è una boccata d’aria fresca in un mondo – che è quello dell’industria musicale – in cui è davvero difficile esprimersi spontaneamente e che, spesso, può risultare anche cattivo. Ad maiora semper.

Mario d’Anelli (The Black Veils): No, non esiste una scena post-punk italiana. Esiste una realtà. Nel contesto europeo l’Italia ha probabilmente la più alta densità di band post-punk che riescono ad uscire dalle proprie sale prova e a produrre almeno un disco. La sola Napoli, ad esempio, è capitanata da almeno quattro gruppi ben più che emergenti e con più di un disco pubblicato, così come altre città della penisola. Tra tutte Bologna è forse quella con la densità maggiore di release post-punk. Perché non si può parlare di “scena post-punk italiana/bolognese”? Quali sono i meccanismi per cui il sound che lega The Black Veils a gruppi affini s’imponga fortemente sul territorio nazionale e, perché no, internazionale?
Negli anni da cui siamo attivi ci abbiamo ben pensato e non solo noi. Circa tre anni fa si era deciso di produrre una compilation che portasse luce alla musica dark del bolognese, ma non andò mai in porto. Si era anche pensato di riunire tutti sotto un’unica label: idea stupenda, ma soldi e competenze manageriali non sono mai stati troppi e a noi musicisti, diciamolo, piace occuparci dell’aspetto musicale. Nella primavera di quest’anno pensavo a come avremmo dovuto/potuto agire, qui a Bologna, per unire e far emergere quella che si è già affermata da tempo come una grande famiglia, perché un territorio florido come questo non può essere tenuto in sordina. Giunsi alla conclusione secondo cui, se a vidimare l’inizio o la fine di un genere, di una corrente o di una moda sono media come magazine, blog e radio, sicuramente sarebbe servita la spinta di articoli di questo tipo. Spero che tali pensieri e idee abbiano fornito il giusto contributo a strumenti come questa stessa intervista che sarà sicuramente un incipit, uno slancio per iniziare a mettere, seppur timidamente, le basi.
Parlare nei termini di scena bolognese è un’attribuzione che può compiere solo una critica attenta ai
movimenti e alla realtà che si è creata in questi anni: realtà con cui nessuno di noi è entrato in contatto ma che tutti abbiamo reso, forse inconsapevolmente, possibile.

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