Interview: L’orso
L’orso ha pubblicato il suo secondo album, Ho Messo La Sveglia Per La Rivoluzione, all’inizio del mese scorso: tante cose sono cambiate all’interno della band milanese capitanata da Mattia Barro e tanti nuovi spunti interessanti sono apparsi in questo sophomore. Noi di Indie-Roccia.it abbiamo intervistato il gruppo lombardo poco prima della loro data al Mattatoio di Carpi, che ha inaugurato ufficialmente il loro tour a supporto della nuova uscita. Ecco cosa ci hanno raccontato Mattia e compagni:
Partiamo dal video della cover di “Nantes” di Beirut e da quando hai smesso di scrivere le recensioni.
Mattia Barro (voce, chitarra): Era tanto tempo fa. Il 2010. Era giusto per fare uscire qualcosa. Era un brano che, per quello che volevamo fare allora con L’orso, qualcosa di bandistico, qualcosa di folk, era l’esempio da seguire. Avevamo fatto questo omaggio e molti ci avevano scambiato per una cover band all’inizio. (tutti ridono) Venti giorni dopo abbiamo fatto uscire molti pezzi dell’EP perché altrimenti sarebbe stato un dramma. E’ stato scelto come omaggio, era un artista che in quel periodo era importante per L’orso.
Parliamo del tour che inizia ufficialmente stasera: per prima cosa vi volevo chiedere come è andata la data zero a Ivrea l’altra sera.
M.B.: E’ andata molto bene. Abbiamo avuto dei problemi e quindi abbiamo dovuto fare il soundcheck a ridosso del live, però per colpa nostra. E’ andata molto bene, perché ho suonato a casa, con la mia famiglia e gli amici. C’erano i miei genitori. E’ stata un po’ come una recita scolastica. A me è piaciuta. A Ivrea non ci sono locali, l’abbiamo fatta all’interno della stazione.
Inizia il tour: quali sono le aspettative?
M.B.: Di girare un sacco, di suonare molto, molto meglio rispetto a come abbiamo suonato finora con le altre formazioni, di avere pubblico. Tutte le cose che si augurano tutte le band. Si parte bene, il disco è stato ben recepito, la gente lo vuole sentire. Sarà un piacere portarlo in giro.
Omar Assadi (chitarra): Noi siamo ultragasati di iniziare una cosa diversa.
Francesco Paganelli (basso, synth): E’ un disco da suonare.
O.A.: E’ divertente da suonare.
M.B.: Il nostro live è cambiato molto: è molto più aggressivo e molto più rock.
Gaia D’Arrigo (tastiere, backing vocals): Tutto quello che pensavi per il vecchio disco, non pensarlo per il nuovo.
M.B.: Siamo cambiati noi, gli strumenti che suoniamo e la musica che facciamo.
Com’è l’approccio sul palco adesso?
M.B.: Adesso è rock n’ roll. Adesso vogliamo divertirci e far divertire. Prima era più qualcosa di intimo, ora è per più gente possibile. Cerchiamo di avere un buon impatto, di essere qualcosa che si puo’ ricordare. Una bella ora e mezza, suoniamo venti pezzi.
Stasera ci troviamo a Carpi, un ottimo esempio di laborioso paese di provincia. Parlando del vostro EP, “La Provincia”, ti volevo chiedere se oggi torneresti a Milano da Ivrea.
M.B.: Da ragazzino? Sì, sicuramente, fossi stato solo a Ivrea mi sarei ucciso. A un certo punto si torna, però c’è bisogno di andarsene via per un periodo dalla provincia, dal paese. Bisogna vedere il mondo, comunque, per poterne parlare, sennò racconti soltanto del tuo orticello e finisce lì. Noi veniamo tutti dalla provincia.
Parlando del nuovo album, quali sono stati i cambiamenti più importanti, a parte il personale fisico, rispetto al passato?
M.B.: E’ cambiato anche tanto il modo di comporlo. Prima io portavo la canzone quasi per intero, se non per intero, facevamo un arrangiamento veloce noi, poi con Matteo Romagnoli arrangiavamo le sezioni di archi e di fiati e chiudevamo lì la canzone. Questa volta siamo arrivati in studio con 15 / 20 canzoni e abbiamo deciso di prendere un’accetta, distruggerle e ripartire, prendendo alcune idee o cambiando ispirazione del pezzo, per vedere dove potevamo spingere questi brani in una via differente dalla solita. Sono uscite tante cose: dal rap alle cose più elettriche o elettroniche, fino al post-rock.
Volevo proprio chiederti di queste cose nuove, tipo il rap o l’uso del synth.
O.A.: Sono cose che abbiamo sempre ascoltato, in realtà.
M.A.: Il rap l’ho sempre fatto, anche da ragazzino. L’uso dei synth è stato fatto per allargare la nostra sezione di tastiere, che era molto ridotta. Avevamo questa volontà, ci piace molto lavorare sui synth. Nell’altro progetto che abbiamo, io e Francesco avevamo lavorato per mesi e mesi sul microkorg, per cui abbiamo deciso di portare questo concetto ne L’orso. Siamo stati aiutati da Carota de Lo Stato Sociale, che aveva più esperienza sulla strumento fisico. Lui ha preso delle nostre idee e le ha sviluppate.
L’idea di fondere la vostra vena cantautorale e di pop leggero con uno stile, almeno nel cantato, più rappato è sicuramente l’elemento più innovativo del vostro nuovo disco. Sappiamo della tua particolare inclinazione nei confronti del mondo hip-hop, che fa parte delle tue radici musicali. Il fatto di inserire questo approccio è un qualcosa che deriva da una tua particolare esigenza o è condiviso e ben accetto da parte di tutti i componenti? Pensi sia riuscito fino in fondo?
F.P.: A me piace molto. Non tutti lo fanno in Italia.
G.D.: Mattia mi ha educato negli anni ad ascoltare il rap in macchina. E’ stata una cosa graduale per me.
Non ascolti hip-hop, Gaia?
G.D.: Non ai livelli di Mattia. Il suo background è molto incline al rap. L’averlo in macchina, durante il tour, mi ha aiutata ad apprezzare e ascoltare meglio questa tipologia di musica.
O.A.: Non sono un appassionato, ma in questo modo credo che funzioni. E’ qualcosa di nuovo, forse mancava.
M.B.: Io ho un uso diverso del rap rispetto a come viene usato di solito, soprattutto in questo periodo storico dove è molto inflazionato. C’è il rap game, si usa il rap solo per parlare di se stessi e non era l’idea che volevamo portare ne L’orso. L’idea de L’orso era di portare una forma più parlata, più rappata, all’interno della canzone pop. E’ molto diverso. Il rap arriva in tre modi diversi nel disco. I tre pezzi in cui c’è maggiormente rap passano da uno spoken-word alle cose un po’ più anni ’90, come I Buoni Propositi, che sembra poter essere un pezzo dei Casino Royale. Il rappato è molto anni ’90. Da parte mia c’era la voglia di giocare con qualcosa che avevo sempre fatto, mi è sembrato fosse arrivato il momento. Avevo la consapevolezza di poterlo usare senza fare pagliacciate. L’importante è che sempre ci sia un rispetto nell’usarlo e non metterlo lì solo perché ora sta funzionando. E’ una cosa che mi dà parecchio fastidio.
Ascoltavo l’album proprio ieri sera e, comunque mi sembra che il senso melodico non vada mai a perdersi.
M.B.: No, assolutamente. Il rap serve a marcare maggiormente il momento melodico. Il rap porta il pezzo all’apertura, fino a esplodere nel pop, che è quello che facciamo. Noi siamo una band pop. Tra l’altro molti momenti del mio rappato portano della melodia.
Per quanto riguarda i testi, mi sembri piuttosto arrabbiato.
M.B.: No, forse mi sono tolto qualche sassolino in più dalla scarpa.
F.P.: Su Spotify tutto il disco ha l’etichetta “explicit”. (ridono)
M.B.: Forse è un disco più diretto.
Ti basi sulle tue esperienze di vita? Quali sono le tue fonti di isparazione prinicipali?
M.B.: Penso che tutto parta dall’autobiografia, poi sta a me romanzarla per renderla più leggibile, sennò è come scrivere un diario segreto, non avrebbe senso. L’autobiografia è sempre la partenza per avere l’ispirazione, poi si romanza un po’, si gioca, altrimenti si risulta essere abbastanza noiosi.
Per quanto riguarda il processo creativo, sei solo tu che scrivi testi e musica o è un lavoro più collaborativo?
M.B.: I testi solo io. Per quanto riguarda le musiche, per quanto riguarda questo disco, io ho portato degli scheletri, su cui avevo già lavorato con Francesco, che, essendo il mio coinquilino, aveva già iniziato a lavorare con me, ancor prima di entrare nella band. Questa volta abbiamo lavorato molto più in studio. Per quanto riguarda l’elettronica abbiamo lasciato che, nel team che avevamo scelto, chi volesse aggiungere qualcosa, potesse farlo. Francesco, quando è andato a lavorare i bassi nel disco, è andato da solo con Matteo (Romagnoli), quindi è stato qualcosa più loro. Per questo disco, quando i nuovi elementi sono entrati, eravamo già all’inizio dei lavori, quindi, per esempio, Niccolò alla batteria ha registrato solo mezzo album, perché è arrivato più tardi. E’ un bravo batterista.
Ieri sera stavo scrivendo una news: Sadie Dupuis, la frontwoman degli Speedy Ortiz, dopo essere stata per più di un anno in tour con la band, è andata a casa di sua madre in Connecticut e andava da sola a camminare per i boschi e a nuotare: così ha trovato l’ispirazione per scrivere il secondo album. Cosa ne pensi? Che metodi hai per ricaricarti e per trovare l’ispirazione?
M.B.: Abito già nel ghetto di Milano. (ride) Vieni a fare un giro nel quartiere! Di solito scrivo quando sono a Ivrea. Abito in un paesino di ventimila abitanti. Ci sono le rovine di un impero (l’Olivetti), non c’è bisogno di andare a vedere le piramidi.
La vostra etichetta, la Garrincha Dischi, è cresciuta parecchio negli ultimi anni. A parte il supporto che vi dà, vi ha dato anche delle possibilità.
M.B.: Ci troviamo molto bene. Abbiamo fatto sia le produzioni del tour che il disco giù a Bologna. Ormai è la seconda casa de L’orso. Quest’autunno ci sono stato più che a Milano.
I vostri compagni di etichetta de Lo Stato Sociale ormai sono a tutti gli effetti i protagonisti di un successo ai limiti della scena indie, si può dire siano già sfociati sul mainstream, almeno come capacità di pubblico (pensiamo a tutti i sold out che hanno fatto giusto qualche settimana fa). L’orso si vuole mettere in scia? Vi piacerebbe seguire un percorso analogo?
M.B.: Scia e percorso no, ma ci piacerebbe arrivare allo stesso quantitativo di pubblico. Loro hanno fatto un ottimo percorso, ma è il loro. Penso che nessuno possa copiarlo, perché risultrebbe una barzelletta. Avevano i modi per poterlo fare. Noi abbiamo il nostro. Hanno trovato la chiave di lettura di loro stessi e di come essere letti bene dal pubblico. Noi stiamo lavorando al nostro percorso e non c’è nessuna fretta di arrivare là. Non è detto che si debba arrivarci per forza, noi siamo soddisfatti di quello che stiamo facendo ora.
Per il recente video di Giorni Migliori siete andati in giro per cercare abbracci dalle persone. Com’è stato? Che impressioni avete avuto?
O.A.: E’ stata una grande emozione. E’ stato veramente strano.
M.B.: Anche quando ho rivisto il video, non sono riuscito a collegare le sensazioni che ho provato, mentre le persone mi abbracciavano.
O.A.: Pensavo che il tempo non sarebbe passato più, invece è volato.
M.B.: Era bello anche vederlo da fuori. A turno abbiamo visto farlo ad altri e da fuori dura veramente tantissimo tempo.
Cosa state ascoltando in questo momento? Avete qualche band da suggerire ai nostri lettori?
F.P.: Di italiano Riccardo Sinigallia. E’ stato il disco più bello dello scorso anno.
M.B.: Francesco ha comprato il disco di Mecna e lo stiamo ascoltando. Io sto ascoltando tantissima roba colombiana e centroamericana. Poi mi piace molto il disco di Lewis, quel cantautore canadese anni ’80 di cui sono stati riscoperti tutti i dischi dalla Light In The Attic.
F.P.: Consigliamo Brace e Magellano, due compagni di etichetta che sono nostri amici.
Ultima domanda: per favore potete scegliere una vostra canzone, vecchia o nuova, da utilizzare come colonna sonora di questa intervista?
F.P.: L’Estate Del Primo Bacio.
[Si ringraziano Chiara Rizzitelli di Propapromoz, Marco La Cascia e tutto il gentilissimo staff del Mattatoio Culture Club di Carpi e il collega Nicola Togni per la gentile collaborazione nel realizzare questa intervista.]