Interview: Kleinkief

Chiacchierare, seppure via mail, con Thomas Zane, leader dei Kleinkief, è esperienza decisamente suggestiva, perchè il Nostro è decisamente ricco di spunti e ottime cose da dire. L’intervista prende spunto dall’imminente pubblicazione di Fukushima, il nuovo lavoro per la band art-rock veneta, che da molti anni ha legato il proprio immaginario sonoro a un rock senza barriere, non ponendosi nè limiti nè particolari preoccupazioni nello spiazzare i propri ascoltatori. Eppure un punto fermo c’è: la bontà della proposta, sia che si passi dal noise a suggestioni anni ’70 come in questo pregevole nuovo album…

Ciao Thomas, allora, un progetto che vede addirittura il proprio esordio nel 1997: gli anni passano e sarei curioso di sapere cosa è rimasto, anche in termini non musicali, ma personali o di approccio al lavoro ad esempio, in continuità con quei lontani esordi…
Beh di tempo ne è passato, nel ’97 eravamo una specie di piccolissima “comune”, suonavamo tantissimo insieme, le prove finivano alle 3 della mattina con la testa infilata nei coni dell’amplificatore, eravamo indemoniati e privi di scrupoli con timpani davvero pazienti. Adesso, la serata settimanale che ci prendiamo, nella maggior parte dei casi finisce molto prima ed in modo meno autodistruttivo.
Oggi come allora comunque, se nella vita reale siam ed eravamo persone normali, nel nostro tempo dedicato alla band il dictat è uscire dalla realtà, ricercar il bizzarro, l’eccesso.

Leggevo una recensione di Onda Rock sul vostro quarto album e mi colpiva una frase che ti indicava come “riappacificato (con sè stesso) e lontanissimo dalle urla indemoniate del passato“: in quest’album quale stato d’animo ha regnato? La pace o qualche demonio è tornato a farsi vivo?
L’espressione “riappacificato” era azzeccata, simpatica pure. Io sono ancora in pace, sono i Kleinkief che sono usciti di senno ed io li ho seguiti. In effetti, Fukushima è sinistro, lo sono le musiche e lo son le parole, e non è certamente un disco pacifico.Nello scrivere i testi ho ricevuto l’aiuto di Fabio Macellari, un’affezionato kleinkieffiano, lui probabilmente un paio di demoni se li porta in giro, è così intenso che oltre alle parole che ci ha donato probabilmente ha ispirato quanto ho scritto io.

Il Veneto ha sicuramente portato alla ribalta artisti importanti e molto quotati che hanno fatto dei poercorsi ricchi di visibilità. Che effetto fa sentir citare spesso i Kleinkief come “un pezzo di storia della musica underground veneta“? Rimpianto per non aver trovato “un posto al sole” o consapevolezza di aver comunque, seppur in una situazione più ridotta, tracciato vie importanti?
Fa un bell’effetto non lo nego, mi intimidisce però, ad ogni modo mi fa venire in mente le persone che nel corso di questi anni si son “spese” con e per la band, tante, tantissime.
Non abbiamo rimpianti, anzi, abbiamo appena relizzato il nostro quinto disco, lavoriamo con professionisti eccezionali, tutte le settimane ci troviam per spappolarci di rock and roll, direi che non possiam lamentarci.

I Kleinkief non si sono mai fermati, hanno “giocato” a sorprendere e anche a spiazzare l’ascoltatore, con proposte musicali differenti. Il disco precedente era spesso stato etichettato come “pop”. In questi 6 nuovi brani invece sembra che ci sia la volontà di riprendere uno spirito anni ’70, senza farsi spaventare dalla parola “prog”. Che ne dici?
Sicuramente Fukushima è il disco più 70 della nostra produzione. Le canzoni sono nate liberamente, senza una iniziale volontà di arrivare a queste sonorità, essere in 6 aiuta a “perdersi” e l’utilizzo di strumenti ed effetti tipici del periodo ha portato a questo risultato. Dal canto nostro, il fatto di “sparigliare le carte” non ci spaventa, anzi ci galvanizza, forse ci piace anche sorprendere ma di sicuro ci piace molto sorprenderci.

La forma canzone classica viene plasmata, dilatata e modellata in modo che emerga il lato capace di lavorare sulle sensazioni che quello della strofa/ritornello, che pare interessarvi poco. Lavorare su questo aspetto “poco fisico” delle emozioni è difficile?
Con il precedente disco ci aveva preso la voglia di fare canzoni, diciamo così, classiche e lì sì è stato piuttosto difficile. Per questo, dopo l’ingresso nella band di altri 3 elementi, musicisti sopraffini, unici e con una forte propensione alla psicadelia, sentimmo subito sarebbe andata diversamente e stimolatissimi abbiamo seguito il vento. Cavalcando quest’impeto abbiam deciso di registrare “live”, con tutti gli amplificatori schierati, senza click o tracce guida, una volta trovato il posto, uno spettacolare teatro che per 3 giorni è stato tutto per noi e convinto il nostro magico tecnico del suono, ci siam buttati, rischiando, ma ottenendo a mio avviso quel, passami il termine, humus che solo l’adrenalina della diretta può dare.

Il Regno è mirabile esempio di un vero e proprio climax in musica: quell’incrocio finale tra tastiere e chitarre è travolgente eppure nello stesso tempo mi inquieta. Mi puoi parlare di questo brano, com’è nato?
Non ricordo sinceramente quando è nata, ma ricordo bene quando è “sbocciata” ed ho cominciato a suonarla con piacere. È successo quando ho provato a suonare le canzoni con l’accordatura con cui ho cominciato ad armeggiare con la chitarra, in Re aperta, lì ha preso quella cupezza che me l’ha resa amica, lì come hai notato anche tu è diventata inquietante. È la storia di un’anima ch’e’ stanca di reincarnarsi, non ne vuol più sapere di entrare in un corpo che per quanto la riguarda ha tutto il diritto di maturarsi un’anima propria, nuova e vergine. Lotta per rimanere dov’è, nel pacifico limbo che chiama appunto regno, il finale è il suo urlo di rabbia, di ribellione, che in un mezzo a cotanta pace, fa effetto.

I Dannati è rabbiosa e graffiante e subito dopo arriva la title track che si muove onirica e dilatata: mondi lontani o forse, meglio, le due facce di una sola medaglia?
Sono due canzoni che hanno una genesi diversa, I Dannati è stata pensata ed elaborata, anzi è quella, sopratutto nel testo, che ci ha dato i maggiori problemi. Parla dell’aggressione occidentale in Medioriente e la prima stesura era impresentabile, una rabbia sboccata e volgare che mal si mescolava con l’impianto onirico e metafisico del resto del lotto. Per fortuna, giocando un po’ con il grottesco ha preso un’aria meno terrena mantenendo comunque alta la tensione.
La suite finale è nata durante l’ultima notte di registrazioni che abbiamo dedicato all’improvvisazione, poco era stato pianificato, è partito un caracollante loop e piano piano ognuno ha preso uno strumento, un pezzo di ferro, un microfono ed ha cominciato a percuoterlo, camminando su e giù per il teatro, tentando di amplificare l’effetto ambientale. Poi l’abbiamo messa nelle mani di Erik, colui che con noi suona il basso ma che chiamare bassista mi risulta riduttivo e il suo lavoro di post produzione ha ancor più esaltato il furore e l’allarme che Fukushima emana.

6 canzoni: c’è chi potrebbe anche definirle un numero decisamente ridotto. Mi ricordo che avevo letto che non sei un autore molto prolifico. C’erano altro brani che avrebbero potuto essere inseriti nell’album che poi, per varie ragioni, sono stati scartati?
In realtà quasi tutto il registrato è finito nel disco, son rimasti fuori un paio di strumentali nati improvvisando che, abbiam pensato, spostassero troppo poco gli equilibri. Abbiam fatto una certosina preproduzione e lì qualcosa abbiam messo da parte, fondamentalmente più che tante canzoni volevamo fare tanta confusione!

Grazie ancora. Con quale canzone della discografia dei Kleinkief potremmo chiuedere la nostra chiacchierata e magari mi spieghi anche il perchè di una determinata scelta?
Sono così “dentro” a Fukushima che a costo di sembrare un’invasato scelgo Grattacieli, la traccia d’apertura, lo faccio semplicemente perché l’insieme dei 4 movimenti che la compongono sono il nostro piccolo nuovo manifesto. Nonostante sia lugubre ed ombrosa è anche una canzone d’amore, malato magari, folle, ma pur sempre una canzone d’amore. Due ingenui grattacieli che vagano declamando i propri sentimenti tentando di anestetizzare la paura che li attanaglia, che tentano di sopravvivere al baratro, nella speranza che il mondo, almeno il loro, non muoia e che qualcuno, in lontananza, li ascolti.

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *