Interview: Giorgio Poi

La scorsa settimana, prima del suo concerto al Coccobello (l’estivo del Circolo Kalinka) di Carpi, all’interno del Chiostro Di San Rocco, abbiamo intervistato Giorgio Poi: il musicista nativo di Novara, ma cresciuto a Roma, ha avuto parecchie esperienze all’estero tra Londra e Berlino con il suo gruppo, i Vadoinmessico, che hanno in seguito cambiato nome in Cairobi: recentemente Poi è tornato in Italia, dove ha realizzato il suo primo disco solista, Fa Niente, per la Bomba Dischi, la nota casa discografica che ha nel suo roster anche Calcutta e Pop X. Ovviamente la proposta di Giorgio è molto differente da quella dei suoi due compagni di etichetta e noi abbiamo già avuto modo di apprezzarla, come dimostrano la nostra recensione e il nostro live-report di qualche mese fa: il cantautorato italiano trova una nuova vita attraverso un’aggiunta di interessanti e gradevoli sonorità dal respiro internazionale. Nella nostra lunga chiacchierata con il musicista piemontese abbiamo parlato del tour, dell’etichetta, delle influenze, dei suoi progetti per il futuro. Ecco cosa ci ha raccontato:

Ciao Giorgio, benvenuto sulle pagine di Indie-Roccia.it. Vedo che quest’estate stai girando molto per l’Italia. Ti posso chiedere come sta andando e quali impressioni hai avuto qui in Italia dopo anni di esperienza all’estero?

Ormai mi sembra di aver sempre suonato qua, mi sono quasi dimenticato come suonare fuori. Mi sto trovando bene e stiamo facendo veramente molti concerti e questo per me è già una cosa molto positiva. Inoltre mi piace molto vedere le persone che vengono a sentirci. E’ superfaticoso, però è veramente bellissimo, quindi lo rifarei altre cento volte.

Quindi ti sta piacendo questa atmosfera?

Sì, moltissimo. Poi stiamo molto bene tra di noi. C’è molta leggerezza quando siamo in giro e quindi ci divertiamo.

Direi che sia un aspetto molto importante.

Sì, è molto importante, perché sono le persone che vedi di più.

Credo che si possano mettere insieme anche bravi musicisti, ma se non scatta il feeling, rischia di non funzionare. Kip Berman dei Pains Of Being Pure At Heart, che ho intervistato qualche mese fa, mi ha detto che di essere stato fortunato ad aver trovato sempre musicisti talentuosi per suonare con lui, ma erano sempre dei suoi amici. Non vuole prendere nella sua band un musicista, anche bravo, ma con cui non abbia alcun tipo di rapporto. Senza voler mettere dei paletti, preferisce comunque scegliere un suo amico e stare bene.

Per me non è esattamente così. Io credo che l’aspetto più importante sia che un musicista sia bravo, altrimenti non mi diverto a suonare, che credo sia il momento più importante in cui si deve divertire. Loro (Matteo Domenichelli – basso e tastiera – e Francesco Aprili – batteria) li conoscevo poco, ma sapevo che erano molto bravi. Poi sono stato ancora più fortunato perché effettivamente ci troviamo molto bene anche sul piano umano e ci divertiamo insieme. Credo comunque che ci debbano essere entrambe le cose, cioè che debbano essere dei bravi musicisti con cui si crei un feeling.

Parlando dei tuoi programmi futuri, presto suonerai al TOdays di Torino, dove ci saranno anche PJ Harvey, Mac DeMarco, The Shins, solo per citarne alcuni. Che cosa ti aspetti da questo festival?

Mi aspetto una cosa bellissima.

Sei fan di qualche band che suonerà lì?

Sì, di PJ Harvey, di Mac DeMarco, di Richard Ashcroft. Non sono mai stato al TOdays, ma ho un’ottima sensazione. Sono sicuro che sarà una cosa organizzata molto bene.

Ho letto pochi giorni fa sulla tua pagina Facebook che sei molto contento di poter suonare insieme ai The Whitest Boy Alive il prossimo 20 agosto a Siracusa. Che cosa ne pensi di questo concerto? E’ un’emozione per te poter condividere il palco con quella che era una delle tue band preferite?

Per me è veramente qualcosa di speciale. Ho conosciuto Erlend Øye quest’anno: lui aveva sentito il mio disco e mi ha scritto, poi è venuto a sentirci a Milano. Ci siamo conosciuti, sono stato da lui in Sicilia e abbiamo passato un po’ di tempo insieme. Era la prima volta che frequentavo qualcuno di cui ero fan da così tanto tempo. Quando hanno deciso di fare questa reunion dei Whitest Boy Alive e ci hanno invitato a suonare, per me è stata una cosa fantastica. Ero presente al loro ultimo concerto e mai mi sarei aspettato di essere sullo stesso palco nel loro concerto successivo. Per me è una cosa bellissima. E poi verranno persone un po’ da tutta Europa a vedere questo concerto. Loro sono particolarmente conosciuti in Germania e in Norvegia e, non suonando mai, attireranno un pubblico un po’ da tutta Europa. E poi per molte persone potrebbe essere una bella scusa per fare un giro della Sicilia. Credo che per me sarà una data speciale.

Il tuo disco è uscito per Bomba Dischi, che, negli ultimi tempi, grazie al successo di Calcutta e Pop X, ha avuto una visibilità enorme. Pensi che ciò ti possa aver favorito in qualche modo? Ti stai trovando bene con loro?

Mi sto trovando benissimo e siamo diventati amici. Sono delle persone che mi piacciono a livello umano. In passato, con il mio gruppo in Inghilterra, non ho incontrato delle persone così belle. Le persone con cui ho lavorato si sono sempre rivelate un po’ approfittatrici, un po’ doppiogiochiste, mentre in questo caso mi sento tranquillo e credo che loro saranno sempre onesti con me. Questo credo che sia molto bello. Poi sono stato fortunato a incontrarli in un momento di grande visibilità per loro.

Se vogliamo per un momento vedere la musica come una cosa fisica, visto che il loro prodotto funziona in questo momento, anche gli altri artisti, che non sono i due big Calcutta e Pop X, hanno in un certo senso maggiori possibilità di mettersi in mostra. Poi ovviamente, se non hai talento, è ovvio che la cosa non funzioni. Non vorrei mai toglierti dei meriti, anzi, a dire il vero, preferisco molto di più la tua musica rispetto a quella dei due artisti che ho appena citato.

E’ un trampolino. Un’etichetta importante è un biglietto da visita, è una presentazione, però, se quello che stai facendo non è valido e manca di sostanza, comunque non succederà niente. Credo che sia condizione necessaria, ma non sufficiente, il fatto di avere una buona etichetta.

Sì, sono pienamente d’accordo con te. Parlando, invece, del tuo primo disco, Fa Niente, ci puoi spiegare da dove proviene il titolo? Ha un qualche significato particolare?

A dire il vero mi piaceva come suona e mi piace come espressione, ma era anche un invito a me stesso di non preoccuparmi di tante cose, di tante paranoie che ogni tanto mi faccio, ma invece a lasciarmi andare. Questa era la mia prima esperienza in italiano e non dovevo avere paura di non riuscirci. Comunque fa niente, sia che le cose vadano bene o che vadano male, che piaccia o che non piaccia, che io sia contento o che non sia contento, non fa niente. E’ una cosa talmente piccola nell’universo, che si puo’ fare con molta più leggerezza rispetto a quella che ogni tanto tutti noi proviamo e ci ostacola.

Per quanto riguarda il songwriting, com’è stata l’esperienza di passare dall’inglese, che usavi con i Vadoinmessico e i Cairobi, all’italiano, che è la tua lingua madre. Io non ho mai scritto canzoni, ma mi pare che l’inglese sia più facile da utilizzare.

L’inglese ha il vantaggio di avere molte parole monosillabiche, con cui puoi dire tante cose. In italiano ciò non esiste e sei costretto a usare sempre più sillabe. Questa è un po’ la difficoltà della scrittura del cantautorato in italiano. Ho comunque sempre tenuto a mente il fatto di essere italiano, durante il mio percorso. Sono andato via dall’Italia quando avevo venti anni, ma da subito ho voluto fare qualcosa che avesse un’identità delle mie origini. Volevo fare qualcosa di italiano, perché trovavo ridicolo voler imitare qualcosa che veniva fatto fuori. Volevo portare qualcosa di mio, qualcosa che mi appartenesse davvero. In questo percorso mi sono trovato in un certo momento a voler abbracciare la causa nazionalista e a cantare in italiano. Era l’ultimo passo, l’ultima cosa che mi serviva per diventare un musicista italiano a tutti gli effetti.

Passando da Londra e poi da Berlino, quali elementi hai appreso che sono poi entrati all’interno della tua musica?

Londra per me è stato un momento molto diverso da Berlino.

Sono senza dubbio due città molto diverse.

Poi ci sono stato in momenti diversi della mia vita. A Londra ho studiato, ho fatto il conservatorio e molto lentamente ho scritto un disco. Il disco dei Vadoinmessico, Archeology Of The Future, è stato scritto nel corso di quattro anni più o meno.

Era tutto opera tua o hanno collaborato anche i tuoi compagni di band?

Ho sempre scritto da solo. Nel momento che mi sono spostato a Berlino, sapevo di dover scrivere un altro disco. Credevo che tutto il gruppo si sarebbe spostato nella capitale tedesca, ma non è stato così e invece mi sono trasferito soltanto io. In quel periodo mi sono concentrato sulla scrittura; ho preso una stanza, dove ho messo tutti i miei strumenti, e ho iniziato a scrivere. Ci è voluto molto tempo per fare uscire il disco dei Cairobi e ci sono state tante complicazioni: nel frattempo ho iniziato a scrivere in italiano.

Quindi avevi già iniziato a lavorarci su.

Ho finito l’album dei Cairobi, ma quel disco non è uscito immediatamente, è uscito molto tempo dopo, è uscito sette mesi dopo. In quei sette mesi ho scritto il disco in italiano. Mentalmente mi ero concentrato su questa cosa differente. Ci è voluto troppo tempo a fare uscire il disco dei Cairobi e mi sono ritrovato ad avere cose per me più fresche, più nuove, più recenti, a cui volevo dare la precedenza. Quindi ora sto suonando principalmente in Italia.

Quando sono state scritte le tue canzoni?

Le ho iniziate a scrivere nell’estate del 2015 e le ho terminate verso maggio del 2016. Durante l’estate dello scorso anno ci siamo preparati per l’uscita e abbiamo registrato un video e a settembre è uscito il primo singolo, Niente Di Strano.

Nel tuo disco ci sono sicuramente sapori internazionali, ma allo stesso tempo ci sono anche influenze del cantautorato italiano. Come hai fatto a far convivere i due spiriti, quello internazionale e quello più legato alla tradizione italiana?

Penso che derivi dai miei ascolti. In realtà ho sempre fatto musica italiana, pur facendola in inglese, o almeno questo è quello che ho sempre pensato di fare, quindi, come ti dicevo prima, mi mancava soltanto la lingua per essere un cantautore italiano.

Quanto è importante la tua provenienza, quindi l’Italia, per l’economia della tua musica?

E’ importantissima. E’ fondamentale, è determinante.

Ovviamente, ti faccio questa domanda perché hai fatto una lunga esperienza all’estero.

Credo che le cose che influenzino di più le nostre orecchie e il nostro modo di fare musica, siano quelle che ascoltiamo quando siamo bambini. Ho un video di mia madre che mi dà da mangiare, mentre canta Acqua Azzurra, Acqua Chiara di Battisti. Quelle sono le cose che ho ancora dentro di me, quindi credo che il fatto che io sia italiano, sia assolutamente fondamentale per quello che scrivo, per come scrivo, per il mio modo di fare musica. Inoltre ho fatto esperienze all’estero e quindi ho assorbito ciò che ho trovato interessante lì.

Credo che nel tuo disco, oltre al cantautorato italiano, ci siano anche profumi internazionali. E’ un album che puo’ essere ascoltato e apprezzato anche all’estero, tralasciando i problemi che puo’ portare la nostra lingua. L’italiano purtroppo non è molto conosciuto.

No, ma notavo, quando abitavo in Inghilterra, che molte persone ascoltavano moltissima musica africana o latino-americana, pur non capendo una parola di ciò che veniva detto all’interno delle canzoni. Penso che ci sia spazio nelle orecchie delle persone per qualcosa cantata in una lingua che non si conosce: succede la stessa cosa anche a noi quando ascoltiamo la musica in inglese. Per quanto possiamo conoscere bene quella lingua, comunque non comprendiamo sempre tutto. Credo che la parola e la musica viaggino su due piani diversi. Ci si puo’ tranquillamente godere qualcosa senza capire quello che viene detto. Io ne sono convinto. Ci sono tantissimi aspetti da valutare quando ascolti una canzone. C’è l’arrangiamento, ci sono i suoni, c’è la melodia, c’è il ritmo, ci sono molti dettagli a cui prestare attenzione. Inoltre c’è il significato delle parole. Io scrivo prima tutta la musica e alla fine, quando sono contento di quello che ho a livello musicale, metto il testo. Credo che tu possa dire anche “mi piace questo portacenere blu” e ugualmente emozionare con quella melodia, con quel ritmo, con quell’intensità, con quel suono. Io la vedo così, non vedo la scrittura musicale come letteratura.

Lo scorso giugno sono stato al Beaches Brew Festival all’Hana-Bi di Marina di Ravenna e l’ultima sera ha suonato questo musicista ghanese, King Ayisoba, che cantava, oltre che in inglese, in due o tre lingue africane che ovviamente erano sconosciute a tutti, però la gente è stata conquistata ugualmente dalle percussioni delle sua band e dal suo ritmo. Tra il pubblico c’erano anche John Dwyer degli Oh Sees e il batterista dei Preoccupations Mike Wallace che ascoltavano molto interessati e, chissà, che in un futuro non troppo lontano possano prendere qualche influenza africana per le loro band.

Penso che spesso le persone credono di emozionarsi per quello che viene detto, ma in realtà si stanno emozionando per la musica, si stanno emozionando per come viene espressa, non veramente per ciò che viene detto, almeno non necessariamente. Altrimenti credo che l’industria dell’editoria sarebbe di gran lunga davanti a quella musicale, mentre invece i libri oggi li leggono poche persone. Il discorso musicale credo che sia centrale nelle canzoni e in Italia stiamo iniziando a capirlo. All’estero, invece, lo sanno già e anche da molto tempo.

Puo’ capitare che tu abbia un testo bellissimo, ma se non hai la melodia giusta, magari l’ascoltatore passa ad altro.

Certo, puoi dire la cosa più bella del mondo, ma se la dici con la melodia sbagliata, non avrà alcun effetto. Puoi invece avere una melodia molto azzeccata e dire cose poco importanti e comunque emozionare chi ti sta ascoltando. In realtà io mi diverto moltissimo a scrivere i testi e ci passo moltissimo tempo, mi piace, ma credo che una bella melodia possa giustificare quasi qualunque testo. L’importante è che poi questo testo suoni bene.

Quali sono le tue influenze mentre scrivi?

Viaggio su due canali diversi. Per quello che riguarda il mio songwriting, nell’ultimo periodo sono stato molto ispirato dalla tradizione italiana, quindi penso a Battisti, Lucio Dalla, Paolo Conte, Piero Ciampi, Bruno Lauzi. Sotto il punto di vista degli arrangiamenti, invece, guardo più verso l’estero. Battisti, a dire il vero, è sempre nella mia mente, però penso più ai Can, ai Flaming Lips, qualche volta agli Animal Collective, ma più in passato. Mi piace moltissimo Conan Mockasin: ha un linguaggio personale che non è riconducibile quasi a niente e per questo mi piace molto. Poi cito anche Micachu & The Shapes, che pure loro sono molto originali nella scrittura.

Stai già lavorando su qualcosa di nuovo? Hai trovato il tempo per cominciare a scrivere qualche altra canzone?

Prima di luglio ho avuto tempo di scrivere qualche cosa di nuovo, ma in luglio e agosto non ho avuto un secondo libero. Ho degli appunti sul telefono di cose che voglio sviluppare.

Pensi che a settembre, quando avrete un attimo di pausa, riuscirai ad andare avanti con la scrittura o magari anche a registrare qualcosa?

Credo proprio di sì. Appena ci fermiamo, ho tante idee che voglio portare avanti. Non vedo l’ora di mettermi seduto a lavorare sulle idee.

Ti piace di più lavorare in studio oppure l’aspetto live?

Mi piace tantissimo che questo lavoro abbia due momenti così diversi e opposti. Un momento di assoluta solitudine nella scrittura e nel lavoro in studio e poi un altro di convivialità, che è quello dei concerti, insieme alla band e alle persone che incontri. Per me è perfetto.

Un’ultima domanda: hai qualche artista nuovo interessante da suggerire, sia italiano che straniero, viste anche le tue esperienze all’estero?

Oltre ai due che ho citato prima, Conan Mockasin e Micachu & The Shapes, ti dico questi miei amici che si chiamano Guess What. Sono un duo batteria e organo. Erano a Londra, ma adesso si sono spostati nelle campagne francesi. Mi piacciono molto. Inoltre ti consiglio Andy Shauf. E’ un altro artista che amo molto.

[Si ringrazia Yeris Mori per il supporto nel realizzare questa intervista.]

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