Interview – frambo

frambo è uno di quelli che, sin dalle prime note riprodotte dal player di turno, sa convincere l’ascoltatore, in modo trans-generazionale. Sì, frambo è un giovanissimo aretino che con noi millenial boomer ha poco a che vedere – all’apparenza: lo slang e il flow sono distanti qualche decennio da quelli impiegati da chi faceva la musica che ascoltiamo noi, vecchi e presunti “autentici” indie-boyz, ma la verità è che il ruolo dei “padri”, a noi di Indieroccia, risulta davvero scomodo e repellente; frambo è figlio del suo tempo, e forse è uno di quelli che riesce a cantarlo, il suo tempo, con più decisione e consapevolezza.

Ne abbiamo parlato, giorni or sono, in una recensione di “Routine”, il suo disco d’esordio per La Clinica Dischi pubblicato giusto un mesetto fa; oggi, invece, ne parliamo direttamente con lui.

Ciao Frambo, il primo disco (anche se nel tuo caso è un EP) non si scorda mai. Tre fotografie che ti va di consegnare, qui, alla storia. Aneddoti, retroscena, curiosità. Quello che vuoi.

Ciao reggae! In realtà non ci sono grandi aneddoti, sono pezzi scritti in momenti diversi. “Domenica” e “Lucky Strike” ad inizio 2019, stavo davvero bene in quel periodo. Le altre tre quasi una di fila all’altra a metà 2020. Lì stavo decisamente in un momento più precario con me stesso e con le cose che mi circondavano.

Cinque tracce dense, anticipate da “Guerra” e “Tour Eiffel”. La guerra, in particolare, è un concetto che torna spesso, nelle tue tracce… O sbaglio?

Sicuramente questo concetto di guerra e conflitto fa da collante per tutte le tracce dell’EP. Mi ha sempre affascinato rivolgermi all’amore con riferimenti bellici.

In “Tour Eiffel” citi una sfilza di cantautori mica da poco. Che rapporto hai, con la canzone d’autore italiana?

Onestamente ho approfondito la cultura del cantautorato italiano da relativamente poco, e mi sono accorto della bellezza che mi sono perso. Provo un amore quasi viscerale verso quella musica, mi trasmette vibrazioni che poche altre cose mi danno.

“Aeroplani”, invece, va venir voglia di viaggiare, oltre che di innamorarci. Come nasce il brano e qual’è il primo viaggio che ti regalerai, alla fine di questa pandemia. 

“Aeroplani”, come anche le altre quattro tracce dell’EP, nasce d’impulso. Ragionavo sul fatto di partire, che molto spesso è sinonimo di lontananza. Quelle emozioni contrastanti di eccitazione e paura nell’intraprendere un percorso, una nuova strada. Non ho una meta precisa per il post-pandemia. Mi basterà partire e scoprire i posti più disparati.

L’estate si avvicina. Ti muoverai in live? O stai pensando a soluzioni alternative, per promuovere il tuo lavoro?

Ancora credo che la situazione sia troppo traballante ed instabile per poter dire con esattezza, ma sicuramente spero in dei live.

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