Interview: Fabrizio Coppola

Dopo l’approfondimento che abbiamo dedicato a Heartland, disco che segna il ritorno di Fabrizio Coppola, è venuto naturale uno scambio di domande e risposte via mail con il cantautore milanese. Le sue risposte rappresentano un punto di vista privilegiato non solo sul disco, ma anche su come Coppola ha vissuto questo lungo periodo di assenza dalle pubblicazioni discografiche, ma mai dalla musica.

Coppola suonerà domani all’auditorium di Radio Popolare a Milano, se non vi siete già prenotati e volete sperare che ci siano ancora posti potete scrivere a prenotazioni@radiopopolare.it.

Normalmente trovo un po’ troppo scontato iniziare un’intervista parlando del titolo del disco, ma in questo caso penso che il tuo punto di vista possa risultare interessante. Come ho scritto nella mia recensione, ho visto la scelta del titolo come una forte dichiarazione d’intenti, una vera e propria scelta di campo, una chiara esplicitazione del tuo approccio alla realizzazione di questo disco. Ho visto bene?

Allora, diciamo che il titolo si riferisce più al contenuto che alla forma, e in questo senso sì, è una dichiarazione d’intenti. Nello specifico, quindi, Heartland è un disco molto personale, in cui mai come prima ho dato voce ad alcune parti di me cui magari in passato non avevo concesso molto spazio. È come camminare sul filo: per entrare realmente in contatto con gli altri – che è il mio obiettivo principale, da sempre, come musicista – devi essere pronto ad abbassare la maschera. Quindi, tornando al titolo, quella parola va intesa in due modi: il primo, in senso letterale, heart + land, il territorio del cuore, perché nel disco si parla molto di relazioni; il secondo, l’heartland è anche la zona più nascosta e difficile da raggiungere in una data area, quella più lontana dalle coste, e questo secondo significato si somma al primo.

Che poi, dichiarare senza mezze misure di aver voluto fare un disco di heartland rock non significa necessariamente che ci si è limitati alla devozione verso il passato, e infatti, nel suono, c’è un’importante presenza di elementi più moderni rispetto ai canoni del genere di riferimento. Tu stesso l’avevi detto presentando il disco nella newsletter e hai anche detto di aver scelto Giuliano Dottori come produttore proprio perché lo ritenevi la persona giusta per questo scopo. Ci racconti, materialmente, com’è stato il processo di modernizzazione del suono?

Dopo Waterloo, che è uscito nel 2011, mi sono preso una lunga pausa. Un po’ per scelta, un po’ per motivi personali. Ma non ho mai smesso di scrivere, accumulando una quantità di provini in cui ho cominciato ad approcciare il suono e gli arrangiamenti in maniera più libera. Batterie elettroniche, sintetizzatori, nuove strade. Quando poi i tempi si sono rivelati maturi, dopo che avevo già coinvolto Giuliano nei miei spettacoli in cui metto insieme musica e letteratura (uno su Nick Cave, l’altro su Raymond Carver e Springsteen), le cose sono accadute in modo molto naturale. Gli ho fatto sentire un po’ di provini e lui mi ha spinto a fare questo passo. Quando finalmente mi sono deciso, gli ho inviato tutto il materiale accumulato negli anni, gli ho raccontato il suono che avevo in mente e siamo partiti.

Passiamo alla nascita delle canzoni, sono passati 12 anni dal disco precedente, queste canzoni nuove sono nate lungo tutto questo ampio arco temporale, oppure in un periodo più ristretto? O magari sono nate a gruppi?

La verità è che ci sono almeno un paio di canzoni in questo disco che risalgono anche a prima di Waterloo. Lettera a C. credo che abbia una ventina d’anni. Roma Raccordo Anulare poco meno. Poi come ti dicevo in questi anni non ho mai smesso di scrivere. A volte succedeva a ondate, magari in una settimana venivano fuori tre o quattro canzoni nuove, poi niente per sei mesi. Succede. Alla fine mi sono ritrovato con più di quaranta canzoni, ne ho fatte sentire una ventina a Giuliano e nel disco ne ho messe dieci. Tra queste anche due canzoni che ho scritto due anni fa, quindi nuove rispetto al resto, e sono quelle che in qualche modo mi hanno fatto sentire che c’era un disco.

Un aspetto che mi è piaciuto molto nel disco, e infatti l’ho sottolineato nell’articolo, è quello legato all’ampiezza nella modalità di utilizzo delle chitarre. Era un’idea che avevi fin dall’inizio o, semplicemente, non ci avevi pensato in modo esplicito e hai seguito il tuo istinto e la natura delle canzoni? O magari ci sono stati anche degli input da chi ha suonato con te?

Ti rispondo dicendo che questo è il disco meno chitarristico che io abbia mai fatto. Ho voluto spostare l’attenzione sui sintetizzatori e su un suono d’insieme stratificato, composto di molte piccole cose. Per le chitarre, avevo una serie di riff e di spunti e di parti che sono poi finiti nel disco, ma Giuliano ha aggiunto molto di suo. È la prima volta che lascio uno spazio simile a un chitarrista, ma il suono che avevamo in mente era molto chiaro a entrambi e le cose sono venute fuori in maniera molto naturale. Poi Giuliano è un chitarrista favoloso, io non sarei stato in grado di suonare e di ideare molte delle parti che ha registrato lui.

Per quanto riguarda i testi, nel mio articolo ho sottolineato quanto possa essere diversa la loro percezione se li si legge semplicemente o se li si pone nel contesto del disco. In particolare, leggendoli potrebbero sembrare pieni di negatività, mentre ascoltando le canzoni si percepisce un forte spirito catartico. Sei d’accordo?

Sono d’accordo, sì. Innanzitutto, i testi delle canzoni non vanno confusi con la poesia, che basta a se stessa. Invece il testo di una canzone non può essere tolto dal suo ambiente, dalla musica, dalla melodia, dal modo in cui il cantante lo canta, sono tutti elementi che ne compongono una parte necessaria. La mia è sempre stata una musica di rivolta. Ho sempre cantato delle difficoltà della vita ma sempre con uno spirito che spinge a non arrendersi, a trovare un modo, a trovare una chiave per uscire dal buio. E Heartland non fa differenza. La domanda che mi pongo in alcune delle canzoni è: Come si fa a vivere dopo che tutto è crollato? E l’accento è sul vivere, non sulle macerie. Heartland è un disco pieno di vita.

Un disco così fa venir voglia all’ascoltatore di ascoltarlo anche dal vivo, e suppongo che faccia venire voglia di suonarlo a te e a chi l’ha fatto con te. Cosa possiamo aspettarci dalla sua trasposizione live? Hai anche pensato alla possibilità di un set in solitaria o con un gruppo di musicisti più ristretti, oppure o full band o niente?

Per quanto riguarda il live, per ora abbiamo fatto solo la presentazione a Milano, e per quanto fosse una specie di data zero, ho ottenuto esattamente il riscontro che desideravo: la sera stessa e nei giorni seguenti in molti mi hanno detto che era da tempo che non vedevano un concerto così. E credo dipenda da almeno tre fattori. Il primo: questo è un disco che a quanto pare riesce a chiamare a raccolta le persone, per i temi che affronta, per come li affronta, per le corde che va a toccare. Il secondo: quando sono su un palco crolla ogni barriera, mi piace stabilire un certo tipo di comunicazione con chi è venuto ad ascoltarmi, mi espongo, mi apro, e il pubblico reagisce di conseguenza. Il terzo: a livello di qualità dei singoli musicisti, non abbiamo nulla da invidiare a nessuno. Io e i musicisti che mi accompagnano (oltre a Dottori, Marco Ferrara al basso, Paolo Perego alla batteria, Marco Confalonieri alle tastiere) siamo in giro da trent’anni, abbiamo un’esperienza in fatto di concerti, dischi, registrazioni che fa la differenza quando ci ritroviamo insieme sul palco. E il pubblico se ne accorge. Sul set in solitaria ci sto ragionando, ovviamente sarebbe tutto più facile ma quello sarebbe più legato al libro che ho pubblicato insieme al disco.

Spostiamo il discorso sul contesto che sta attorno alla musica. La tua lunga assenza è davvero dovuta al forte mutamento di questo contesto, come ipotizzo nell’articolo, oppure ho dato troppa importanza a questo aspetto?

Quell’aspetto c’è, c’è stato, ovviamente. Così come anche la mia vita personale ha influito molto. Ho fatto delle scelte, ho avuto una figlia, che è la mia gioia più grande. In questi ultimi dieci anni il mondo della discografia e dei concerti ha visto una vera e propria rivoluzione. Io però a un certo punto questo disco volevo farlo, e l’ho fatto. Promuovere un disco nel contesto attuale è difficilissimo, ma ormai sono in ballo e ballerò.

In ogni caso, al di là del tuo lavoro da musicista e della tua ispirazione per realizzarlo, deve essere stato piuttosto destabilizzante quantomeno da ascoltatore e frequentatore dell’ambiente legato alla Casa, al Ligera, al Dynamo, agli house concert, agli spazi teatrali, assistere davanti ai propri occhi alla progressiva rarefazione di queste situazioni. Come l’hai vissuta? E, secondo te, ha senso fare una contrapposizione con la musica che, invece, aveva successo in quel periodo? Io per molto tempo ho sostenuto l’idea che non necessariamente essa togliesse spazio a ciò che c’era prima, perché immaginavo che ci fossero molte differenze tra gli ascoltatori interessati all’una e all’altra realtà, però, pensandoci adesso, trovo che quantomeno una longa manus che ha influenzato un po’ tutto ci sia stata. Cosa ne pensi?

Io credo che l’offerta culturale e di intrattenimento debba essere il più varia possibile. Perché in quel modo si alimenta un circolo virtuoso. E non mi sentirai mai dileggiare il lavoro di qualche collega perché solo gli stupidi pensano che si debba fare un’unica cosa e in un unico modo. La nostra società si sta avvitando su se stessa, è evidente a tutti. Questo paradossalmente crea degli spazi, dei bisogni. Vediamo cosa succederà. Fermo restando che se restiamo tutti con le mani in mano non succederà un bel niente, o anzi succederanno solo cose che non ci piacciono.

Probabilmente è presto per chiedertelo, ma hai idea di cosa succederà alla tua carriera musicale al termine del ciclo legato a questo disco? Hai magari altre buone canzoni da parte? Pensi che tornerai a pubblicare musica con una buona frequenza? Oppure al momento stai solo pensando a questo disco e agli aspetti legati a esso e non intendi perdere concentrazione immaginandoti il futuro?

Del doman non v’è certezza, diceva quel tale. Io non credo però di abbandonare di nuovo la musica dopo questo decennio di silenzio. Non so se sia l’età ma mi sembra di non avere davvero più nulla da perdere.

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *