Bruno Genèro: pronti a fare il giro del mondo partendo dall’Africa?

Ekùn” è decisamente un disco alto, ampio, di vedute aperte, distese, di orizzonti assai lontani. Bruno Genèro torna con un nuovo lavoro che firma a due mani con un grande dj e producer come Alain Diamond. La percussione diviene il collante, il filo narrativo, diviene un luogo oltre che un suono. Poi l’Africa, la vita, la contaminazione, poi la techno, il futuro, l’elettronica che si mescola e quasi non sembra il futuro ma altre forme di spiritualità e umanità primigenia. È un’esperienza… e non rubo altro spazio alla lunga a interessante intervista che segue.

Al tamburo associo il suono primigenio dell’uomo. Al suono di Alain Diamond associo il futuro. “Ekùn” dove si pone? Che tempo ha? Passato, futuro o presente?

Appartengo a quella generazione che ha conosciuto l’analogico, poi il digitale e ora l’intelligenza artificiale…

Quando nel 2019 ho iniziato a lavorare su questo progetto, non ho pensato di collocarlo in un’epoca o uno stile in particolare. Utilizzando il mio linguaggio espressivo, mi sono concentrato sull’elemento che accomuna tamburo e techno-dance-house, cioè il tipo di GROOVE che, oltre a caratterizzare l’ascolto, agisce sul corpo stimolandolo a “muoversi”. Non saprei dove e come collocare questo album. Penso che la musica sia fatta per essere trasmessa, dunque spetta agli ascolti, al pubblico nei live e a voi giornalisti/critici musicali trovarne luogo, tempo e genere.

Ekùn è una valigia piena d’esperienze e avventure personali, vissute viaggiando per oltre quarant’anni in 3 continenti (Africa, Europa, Nord America e Caraibi) con il mio tamburo.

È stato bello cercare una nuova forma e sintetizzare i punti salienti. Attraverso lo studio approfondito e le pratiche di saggezze antiche africane, ho potuto riunire le varie esperienze in 10 brani dove Passato, Presente e Futuro diventano un tutt’uno.

L’espressione di vita, l’Africa, le tante esperienze. Il suono da solo può bastare? Oppure servono altre discipline per rendere tutto più completo?

Il mio percorso di percussionista/musicista è stato da sempre strettamente legato alla danza, come avviene nella tradizione africana. Con mia sorella Katina, danzatrice e coreografa, siamo stati pionieri portando questo linguaggio in Italia nel 1979. Negli anni lo abbiamo poi trasformato adattandolo all’anatomia e all’orecchio occidentale.

Con questo album ho sentito l’esigenza di voltare pagina e aprirmi ad un’ulteriore trasformazione. Attraverso la ricerca ho potuto immergermi totalmente nell’evoluzione tecnologica dei suoni digitali e mi sono reso conto delle infinite possibilità che questa offriva per raccontare le mie esperienze.

Così con il supporto di Alain, l’elettronica amalgamata ai tamburi è stata ideale per dare forma alle atmosfere e sensazioni che ho vissuto e che spero possano accendere l’immaginazione dell’ascoltatore e condurlo in un viaggio dinamico ed emozionante.

Ad esempio, l’uso delle voci campionate e le poliritmie dei tamburi, in parte sostituite con suoni digitali, hanno creato un connubio sonoro con un’identità espressiva ben definita, ma senza frontiere.

Il live che sto preparando, e che debutterà ad ottobre 2024, è concepito più come concerto, che come spettacolo teatrale. Anche in questo caso, ho sentito la necessità di dare una nuova veste alla mia espressione artistica mettendo la musica in primo piano, attraverso la sinergia con proiezioni multimediali, un light design accurato, un corpo di ballo afro-urban contemporaneo e il sound immersivo, che renderà il tamburo come se fosse una voce solista.

E parlando di suono: come hai tradotto la vita in suono appunto? Al di la di Alain, tu nello specifico che suono e che strumenti hai ricercato per parlare del mondo vissuto?

Secondo me una delle cose più importanti per un musicista è avere un suono proprio, che lo caratterizzi e contraddistingua. Ho passato tutta la vita a ricercare questo. Nel 1989 ho costruito il mio primo tamburo scavando un tronco, cercando le misure, i legni e le pelli che corrispondessero all’idea di suono che avevo in mente. È stato un percorso che si è concluso (per ora!) nel 2021, quando ho costruito il mio ultimo djembe solista, ricavandolo da un tronco di 500kg, che ho aspettato per quasi 2 anni. In ognuno dei miei viaggi in terra africana, ho trascorso intere giornate ad osservare il lavoro minuzioso dei forgeron, un’antica casta di artigiani, che si tramanda l’arte di scolpire il legno e forgiare i metalli attraverso attrezzi spesso costruiti ad hoc per l’occasione. Da loro ho imparato i vari segreti.

Per quanto riguarda Ekùn, sono state le storie che volevo raccontare a fornirmi l’ispirazione sonora. Oltre ai vari djembe di tonalità differenti che ho registrato in studio, ho attinto ad altre culture, spaziando fra taiko giapponese per avere degli infrabassi, oud del Marocco, n’goni, calebasse e karignan del Mali, fino ai tamburi bassi del Mandé.

Ma ho anche utilizzato il canto delle balene, i suoni della foresta, il respiro del rinoceronte, rumori urbani, la mia voce e tutto ciò che mi ha permesso di provare l’emozione che cerco quando compongo.

Nel disco troveremo anche ricerche strumentali di qualche tradizione?

L’Africa è considerata la Madre del Ritmo, è un territorio immenso dove la musica da sempre accompagna la vita quotidiana dei suoi abitanti, dal celebrare un abbondante raccolto, al festeggiare un matrimonio, un battesimo, un rituale di iniziazione o una cerimonia funebre…

A volte basta spostarsi meno di 30 km, da un villaggio all’altro, per trovare lo stesso ritmo suonato in modo diverso o con altri strumenti, ma mantenendo medesima intenzione e contesto. Il tamburo (djembe) che suono viene dall’Africa occidentale, in particolare dal territorio Mandé (Guinea, Mali, Senegal). La vera ricerca è stata quella interiore, i viaggi mi portavano in contatto con culture, tradizioni musicali e spirituali, che a poco a poco facevano aumentare la consapevolezza di quella “chiamata” avvenuta nel 1979 a Parigi…

Posso dire davvero che viaggiando in terre lontane ho conosciuto me stesso.

Alcuni brani dell’album raccontano proprio vicende di quelle tradizioni. Ad esempio, nel brano ‘Somà’, narro la storia di un jinn (spirito sovrumano) del deserto di origine preislamica, chiamato Soma Souleymane. Questo essere spirituale decise di seguire i devoti di una piccola etnia maliana, che in tempo coloniale emigrò verso l’oceano, in Senegal. Con l’aiuto di suoni digitali ho cercato di ricreare quell’atmosfera, l’energia dell’entità come se fosse un Angelo Alieno poi, sul finale, appare una voce femminile ipnotica per suggellare il patto con il jinn benevolo, in segno di ringraziamento alle preghiere esaudite. Nella composizione ed esecuzione del brano, ho usato gli strumenti a suono indeterminato originari di quella tradizione: calebasse (tipo di zucca scavata ed essiccata) suonata nell’acqua, vari djembe con tonalità e stili specifici, dounumba e kenkenì. Così la danza si fonde con i tamburi, ricreando una meditazione del corpo.

Mentre in ‘Somà’ la parte ritmica suonata è fedele alla tradizione, in ‘Fa Ule’, brano diverso nello stile, la composizione è avvenuta basandomi esclusivamente sulle influenze del Nuovo Mondo, Cuba e Caraibi, dove ho vissuto per lunghi periodi. Arrivando in quella terra nel ’90, mi sono sorpreso nel vedere tratti somatici e influenze musicali tradizionali che avevo conosciuto anni prima in Africa, ed è stato naturale ricercare e trovare direttamente il filo conduttore di quella radice, che aveva viaggiato secoli prima dall’Africa, attraverso l’oceano, con la tratta degli schiavi. ‘Fa Ule’ racconta la leggerezza e anche la nostalgia di quel popolo, una chitarra classica flamenca diviene l’anello di congiunzione fra i due continenti.

Rapisco direttamente da una tua dichiarazione. L’uomo propone, la Musica dispone. Cosa significa nello specifico? Come va vissuta una simile dichiarazione?

La musica non si vede, non si tocca e non ha odore. Ottunde i sensi e annulla la ragione. ‘L’uomo propone, la musica dispone’ per me significa questo.

Quando avevo 17 anni vivevo dei periodi a Parigi e studiavo per diventare un batterista jazz poi, una sera, scendendo nel metro di Montparnasse, ho sentito i tamburi africani suonare…in quel momento c’è stata una vera e propria chiamata. L’anno dopo ero in Africa per ricercare il suono del djembe, che non ho mai più lasciato.

Posso partire da un’idea, da un progetto, ma quando la musica nasce spesso trova strade che non avrei previsto e mi conduce verso mete non per forza ricercate.

Nello specifico, secondo me, la musica con emozioni, sensazioni e stati d’animo, ci parla a diversi livelli…aiuta ad affrontare i nostri limiti e a riconoscere il nostro valore, come una bussola che indica la direzione per comunicare con il profondo di noi stessi.

Per concludere, potete immaginare una vita senza musica?

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